E siccome adesso non ci sono più dubbi, il nuovo padrone del tennis si butta sull’erba di Wimbledon come solo i Grandi sanno fare. Novak Djokovic ha appena finito di triturare Rafa Nadal come nessuno osava più da tempo e con un punteggio - 6-4, 6-1, 1-6, 6-3, con un terzo set lasciato a Rafa giusto per rifiatare - che non era mai stato così chiaro dai tempi in cui a Church Road vinceva Lleyton Hewitt, anno 2002. Federer, inteso come imperatore, doveva ancora arrivare e quello era un altro tennis: probabilmente adesso lo sarà di nuovo.
Novak Djokovic dunque è il nuovo padrone e non solo in classifica, in tutto l’anno ha perso solo un match a Parigi contro Roger, per il resto sono stati mattoni su mattoni per costruire una credibilità che ancora non aveva. E ora che è diventato il settantesimo vincitore di un torneo dello Slam, il primo serbo numero uno, adesso che insomma ha conquistato perfino l’erba, in questo momento tutti devono avere paura di lui, perché in fondo è un predestinato: è stato infatti il più giovane Top 100 quando aveva 18 anni, è stato il più giovane dei Top 10 del momento quando ne aveva 20, adesso è il numero uno. E, a 24 anni, è più giovane perfino di Nadal.
Così insomma finisce una diarchia, quella Federer-Nadal, con Rafa che alla fine trova il modo per scherzare quando la gente del centrale di Wimbledon mormora per un microfono che non funziona: «Che succede, ho detto una cavolata? ». Ma è solo un attimo, perché Nadal ha capito. Ha capito che non basta più. Novak Djokovic dunque è il numero uno, e le sue lacrime giusto frenate sono il risultato di un lavoro di un team- mamma, papà, fratello, allenatore e la fidanzata Jelena ex studentessa della Bocconi - che lui non smette mai di ringraziare: «Senza di loro non sarei nulla. Sono contento che nel giorno più bello della mia vita loro siano qui con me». E mentre Wimbledon lo chiama, lo fotografa, lo mette sul piedistallo degli immortali, lui ringrazia il suo Dio con un doppio segno della croce: «Questo è stato il primo torneo che ho guardato in televisione quando ero piccolo e da allora sognavo di vincerlo. Per battere Nadal, qui e in finale, dovevo giocare la mia miglior partita sull’erba. L’ho fatto».
D’altro canto Novak non ha mai avuto dubbi: quando aveva 8 anni disse a tutti che sarebbe diventato numero uno del mondo, e mentre loro ridevano lui organizzava il suo futuro. E quando apparve decisamente sulla scena del tennis che conta, disse senza scherzare: «Nadal non è imbattibile, neppure sulla terra rossa». Infatti quest’anno l’ha sempre sconfitto e con quella di ieri fanno cinque volte di fila. Solo che quello sull’erba adesso vale di più.
E siccome adesso non ci sono più dubbi, rileggere la biografia di Novak Djokovic diventa un conto alla rovescia verso l’inevitabile, lui che è rimasto quel ragazzo conosciuto cinque anni fa nella hall di un albergo di Londra, portato per mano dal papà nel mondo degli adulti del tennis. Aveva perso, quel giorno, Nole, ma sapeva che non sarebbe durato. Così come lo sapeva Riccardo Piatti, il tecnico che lo allenava quando era ragazzino e che aveva scommesso su di lui, un futuro campione che quando la Serbia aveva problemi troppo grossi aveva pensato perfino di diventare italiano. È successo dieci anni fa, poi non se n’è fatto nulla, e così il presidente Boris Tadic ieri ha potuto esultare in tribuna mentre il clan di Djokovic indossava una maglietta con la bandiera nazionale.
Forse però il nostro tennis, che ha dato segnali di risveglio sulla terra rossa di Parigi, ma che a Londra è tornato confinato nella prima settimana, può ancora imparare qualcosa in attesa di veder comparire una nuova generazione che ancora è fantasma.
Perché quando Novak Djokovic, campione di Wimbledon, numero uno del tennis mondiale, spiega come tutto questo è nato, racconta: «Nel mio paese in Serbia fecero tre campi da tennis pubblici davanti al ristorante dei miei. Ci sono andato e mi sono innamorato del tennis». Troppo semplice?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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