DJUNA BARNES L’imperdonabile vizio della poesia

Pubblicata la prima antologia poetica di una grande irregolare del Novecento

Figura mitica dell’avanguardia letteraria americana fra le due guerre - prima a Parigi anni Trenta, nella Festa mobile della lost generation, la «generazione perduta» di Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Henry Miller, poi nella New York esclusiva e progressista (il Greenwich Village) degli anni Cinquanta (dove furoreggiava quell’Anaïs Nin, che sempre la considererà un modello) - Djuna Barnes (1892-1982) ci ha soprattutto affascinato con i suoi romanzi e racconti forti, simbolici, di ansiosa e rinnovata ascendenza imagista (Ezra Pound docet): pensiamo a un capolavoro assoluto come La foresta della notte (1936, stampato da Adelphi nel ’94), che T.S. Eliot elogiò per la sua «qualità di orrore e di fato strettamente imparentata con quella della tragedia elisabettiana».
Molto meno nota era ed è come poetessa, tagliente e lucida, fredda e categorica, visionaria e implacabile come una Bibbia paradossale, un’Apocalisse ribaltata e indicibile: «Ad Adamo è rimessa la sua costola,/ una donna gli piange dentro il fianco». Benemerita dunque quest’edizione, che mette finalmente insieme una produzione che va dal 1911 al 1982 (Discanto, Edizioni del Giano, pagg. 144, euro 18), felicemente dispersa tra riviste, giornali, plaquettes. E brava Maura Del Serra a tradurre questa «poesia serpentinata» con rigorosa, spigolosa esattezza, con l’eleganza compunta e stoica che le apparteneva; a seguirla in «quel gioco o dramma con la perfezione stilistica - spiega la curatrice - che Djuna condusse, e da cui fu condotta, con violenta e acuminata leggerezza, con graffiante e dolente sprezzatura».
Imperdonabile adepta di una scrittura macerata, elitaria fino al nudo, flagellante cilicio della parola, «Djuna Barnes è, tra i vivi - come la glorificò nel 1975 un’altra massima voce del Novecento, Cristina Campo - colei che meglio abbracciò questo trappismo della perfezione. Si ignora dove sia, dà alle stampe un libro ogni venti anni, lo stesso suo nome trova il modo, ogni volta, di cader fuori dai repertori». Djuna sarebbe morta sette anni dopo, novantenne, pronta per la giusta palingenesi di una rifiorita fama postuma.
È in realtà uno sfondo mitico e coraggioso, questo della poesia e della scrittura al femminile americana di quegli anni. Da Gertrude Stein alla McCarthy, da Edith Sitwell a Marianne Moore, da Dorothy Parker ad Edna St. Vincent Millay, si tenne a battesimo la nascita di un nuovo linguaggio agile ed aspro, sviscerato e oltranzista, insomma della poesia invocata dal fanciullo ebbro Rimbaud, assolutamente moderna e capace di trasfigurare in preghiera ogni laido, laico tormento; una poesia, direbbe Djuna, «Fall-out over Heaven», «Ricaduta sul Cielo»: «Si sprigiona Lucifero ruggendo dalla terra,/ sprofonda Cristo nella sua morte...». E il Discanto allora è proprio questo: come nell’accezione musicale delle prime composizioni polifoniche, la parte in opposizione e al di sopra della melodia data.
Djuna Barnes eccelle come nessun’altra nell’addomesticare il dolore, nel farlo algido e dovizioso compartecipe del suo sguardo sul mondo... E viverlo come un potenziamento, un prolungamento etico. Rarefatta e spudorata antiborghese (lei borghese) danza e irride a «Vaudeville» ogni rito o archetipo della scrittura, facendo sesso mentale con radicale, svolazzante manierismo: «Si afferrò infine la gonna di lustrini e si volse/ imprigionando l’eco della musica...».
Omosessuale dichiarata, e avventuriera di cento amori effimeri e sublimi, Djuna Barnes fa del lesbismo (o meglio della sua libera, passionale bivalenza con uomini e donne) una civica virtù di Saffo, un fiero e struggente snodo filosofico, in un mondo dove davvero il progressismo era donna - se solo si pensi a quella miriade di artiste in lotta per cambiare non solo l’estetica, ma proprio l’Immaginario: dalle ossessioni narcise di Frida Kahlo ai Sogni trascritti di Meret Oppenheim, dall’orfismo cromatico di Sonia Delaunay ai Dagherrotipi e ai viaggi di Karen Blixen, dalla sensualità mondana di Tamara de Lempicka a Léonor Fini, fra simbologie oniriche e surrealismi «automatici»... Djuna ne è la sintesi e la parabola: «Sono la donna - sono io -/ Soffro pace malgrado ogni mia pena,/ e sopporto dolore attraverso ogni mia pace».
Poi verranno le nuove, giovani poetesse degli anni Sessanta, le fulgide ma «cattive» ragazze - Anne Sexton, Adrienne Rich, Sylvia Plath - tutte perse appunto in quella drammatica, affabulante e ferina Foresta della notte...

E per tutte, «lungo il sentiero quasi cancellato del Bene e del Male», vale la stessa amara diagnosi che il Dottor O’Connor formulò a Nora: «Dormiamo in una lunga polvere piena di rimprovero contro noi stessi. Siamo pieni fino al rigurgito dei nomi che diamo all’infelicità. La vita - i pascoli dove la notte produce e rumina il cibo che ci nutre alla disperazione».

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