«L’anno moriva assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma». L’incipit del primo romanzo di Gabriele d’Annunzio, Il Piacere, divenne immediatamente celebre, come il suo autore. Oggi quel romanzo del 1889, pietra miliare della letteratura italiana e europea, è anche un prezioso documento storico su una Roma scomparsa. Come è scomparsa la Roma della Dolce vita di Fellini, ultima epopea novecentesca di una città che il prossimo 21 aprile compirà, ufficialmente, 2763 anni. (Auguri, vecchia matrona e giovane puttana che mi hai acchiappato, come tanti).
Dal Piacere alla Dolce vita è, dunque, prima di tutto un magnifico titolo per raccontare – recita il sottotitolo – «una capitale allo specchio»: ovvero Roma dal 1889 al 1960. Prima di parlare del volume (Mondadori, 292 pagine, 35 euro) converrà parlare dei due autori. Una coppia singolare. Gianni Borgna, romano, è stato a lungo assessore alla Cultura in giunte di centrosinistra e ora è presidente della Fondazione Musica per Roma, che gestisce l’Auditorium; Antonio Debenedetti, torinese che vive nella capitale dall’infanzia, dal 1963 scrive sulle pagine culturali del Corriere della Sera. Nessuno dei due è storico di professione, ma entrambi sono bravissimi nel raccontare storie, come ha detto Aldo Cazzullo durante la presentazione del volume, al Circolo Canottieri Aniene, sul lungotevere. Borgna è autore di una fondamentale Storia della canzone italiana, oggi negli Oscar Mondadori; Debenedetti ha scritto romanzi premiati e di successo, ma lo amo soprattutto come scrittore di racconti. Proprio in questi giorni sto leggendo la sua ultima raccolta, che raccomando e che sembra quasi una integrazione – di lusso – dell’altro libro: in ogni racconto si dipana una vicenda italiana degli ultimi settant’anni, dal fascismo a oggi: E nessuno si accorse che mancava una stella (Bur Rizzoli, 300 pagine, 12 euro).
Non a caso, trattandosi di due scrittori e di due personalità così diverse, il libro non è scritto a quattro mani, ma ognuno firma le proprie pagine, con in più l’intervento di specialisti autorevoli: Raffaele La Capria, Gian Luigi Rondi, Giovanni Sabbatucci, Lucio Villari. Enorme è la quantità di temi e personaggi trattati, per cui è il caso di limitarsi – qui – a un paio di assaggi.
Centoventi anni dopo Il piacere e mezzo secolo dopo La dolce vita, Roma è incredibilmente cambiata e – incredibilmente – è rimasta la stessa. O forse è rimasta la stessa dai tempi dei suoi più antichi abitanti? Parrebbe di sì, a leggere Giovenale, «Cosa farò a Roma? Non so mentire», e Tacito: «A Roma confluiscono tutti i peccati e tutti i vizi per esservi glorificati». Molto belle, fra i milioni fra cui scegliere, anche le definizioni di due moderni, stranieri: Francis Scott Fitzgerald, «Mi piace la Francia, dove tutti si credono Napoleone. Qui tutti credono di essere Cristo»; Henry James, «Si ama la sua corruzione più dell’integrità di altri luoghi».
Capitale lenta e frenetica, dura e piaciona, ha conservato lo spirito delle epoche di d’Annunzio e di Fellini: che è sempre compiaciuto di sé, irriverente verso quanti, amandola, la detestano. E, detestandola, la amano. Come, probabilmente, Borgna e Debenedetti. Basti vedere con quanta cura hanno scelto le centinaia di illustrazioni – molte inedite - che impreziosiscono il volume e lo completano, da quella di d’Annunzio ritratto dal conte Giuseppe Primoli a quella di Anita Ekberg.
Fra i due personaggi, gli eventi più decisivi e sconvolgenti per la città, a parte la Seconda guerra mondiale, non furono le faccende intellettuali o politiche, bensì quelle edilizie e urbanistiche. Dopo il 1870, appena strappata al dominio papalino, la città passò in pochi anni da duecentomila a trecentomila abitanti: impiegati e funzionari, operai e commercianti, ma anche avventurieri e avventurosi che avrebbero dato alla capitale l’animus che ha oggi. In quegli anni Roma, come poi durante il regime fascista, venne sventrata per adattarla alle necessità di una grande capitale. Distruggendo ville patrizie e borghi rinascimentali, nascono via Veneto e corso Vittorio Emanuele II: «Sembrava che soffiasse su Roma un vento di barbarie», scrisse d’Annunzio, che fu uno dei più importanti protettori di quelli che per primo definì «beni culturali», «e minacciasse di strapparle quella raggiante corona di Ville gentilizie a cui nulla è paragonabile nel mondo delle memorie e della poesia». Le minacce vennero mantenute, per esempio con la devastazione di Villa Ludovisi, che oggi verrebbe considerata patrimonio dell’umanità.
Durante l’epoca fascista, invece, la distruzione toccherà agli antichi borghi che impedivano la costruzione di Via dell’Impero e di Via della Conciliazione. L’abbattimento – sul quale urbanisti e storici ancora discutono, valutandone vantaggi e perdite – avvenne mentre era governatore dell’Urbe un altro protagonista del libro, Giuseppe Bottai. Il grande intellettuale e politico fascista risalta sempre di più come una delle figure centrali del nostro Novecento e Antonio Debenedetti, durante la presentazione del libro, ha ben sottolineato che c’è ancora da studiare l’influenza della sua opera (si pensi alla rivista Primato) sulla cultura comunista dominante nel dopoguerra.
Bottai era un romano de’ Roma, amante della sua città, anche se in una poesia giovanile aveva scritto: «In questa città / grande e lussuosa / proprio, / non voglio esserci nato»; e poi, da futurista, nel 1919, con parole simili a quelle usate dieci anni prima da Filippo Tommaso Marinetti: «Roma puzza di carta protocollo e di inchiostro, va piano e non arriva mai lontano. Qui la vita prende il corso di una pratica d’ufficio. (…) In questa città di scavi le cose si accumulano in strati di noia». Sotto il suo breve governatorato (1935-36) fu compiuta buona parte dell’opera di «sua maestà il piccone», come amava chiamarlo Mussolini, ma erano tutte decisioni già prese nel piano regolatore del 1932.
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