Franco Fayenz
Abdullah Ibrahim può contare su un seguito non vasto ma fedele di ammiratori, molti dei quali lo considerano addirittura il loro pianista preferito nellàmbito del jazz «contemporaneo leggibile». Sono bene informati circa le sue tappe concertistiche e lo seguono dovunque sia possibile, specie se si esibisce da solo. Da parecchi anni infatti - da prima che Ibrahim si convertisse alla religione musulmana, quando si chiamava ancora Adolph Johannes «Dollar» Brand - è diffusa la convinzione che il virtuoso sudafricano suoni meglio quanto minore è il numero dei suoi comprimari: la situazione ideale, perciò, è il concerto solistico. Lo si è visto (e sentito) anche al Cineteatro di Chiasso, dove numerosi erano gli spettatori venuti dallItalia. Ibrahim, con il suo tocco arcano e la sua capacità di creare un clima poetico inconfondibile con poche note, li ha ripagati in pieno. Non sbagliò Duke Ellington nel 1963, quando lo scoprì a Zurigo non ancora trentenne, fuggito dal suo Paese in preda allapartheid, e lo diagnosticò come un discepolo involontario di Chopin, che allora Ibrahim non conosceva. Il suo recital di Chiasso ha seguito uno schema improvvisativo abituale: un solo tempo, temi suoi o di chissà quale zona africana che si snodano senza soluzione di continuità, per cui ciascuno gli suggerisce il successivo.
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