La Scala, anche in un periodo in cui la distrazione la fa da padrona, mantiene il primato in ogni campo. Ci riferiamo ai dissensi, caduti ormai altrove in disuso, questa volta copiosi e mirati alla conduzione musicale.
Lamentava Giuseppe Rovani, il padre della Scapigliatura, e Carlo Dossi annotava nella sua Rovaniana, la scomparsa già a metà Ottocento di quelle fischiate che inducevano Rossini a tener pronto un biroccio per volar via dalle serate procellose. Oggi è tendenza applaudire tutto e tutti, tanto che qualcuno potrebbe pensare di trovarsi in una qualche età delloro. «Il pubblico, annoiato anche di lamentarsi, batte le mani come chi ride delle disgrazie e sfida il pericolo con indifferenza gioviale», così il Rovani invocava i fischi contro un teatro senza dolori, come rondini apportatrici di primavera. Anche in questo senso la Scala gode non buona, ma ottima salute. Tantè che il legislatore ha riconosciuto ad essa, insieme alla gloriosa Accademia di Santa Cecilia di Roma, il primato nei confronti delle altre istituzioni lirico-sinfoniche italiane.
La serata di cui ci si occupa attendeva al debutto milanese nei panni di Simone Boccanegra, il giustamente beniamino Placido Domingo, alla prima interpretazione dopo un serio intervento chirurgico per un tumore. Limpegnativo ruolo vedeva la trasmigrazione di Domingo alla chiave di baritono. Non è una novità: accadde prima di lui a un altro gran tenore che incantò come Domingo la Scala in Otello e Sansone, il toscaniniano Ramon Vinay. Domingo ha superato tutti gli ostacoli, e non erano pochi, confermando di appartenere a quella eletta schiera di artisti (non cantanti) che fanno musica con la voce e hanno una presenza che riempie la scena. Comunque, i suoi compagni di avventura, sono degni di considerazione: lesperto Ferruccio Furlanetto (Fiesco), la già collaudata (in Tannhäuser) Hanja Harteros (Amelia), lespansivo Fabio Sartori (Adorno) e, bella conoscenza, il baritono Massimo Cavalletti nel fondamentale ruolo del perfido villano Paolo Albiani. Alla pertinenza degli interpreti vocali e scenici non faceva riscontro altrettanta misura nella messa in scena, firmata da Federico Tiezzi (regia), Pier Paolo Bisleri (scene) e Giovanna Buzzi (costumi). Sulla scarna scena nessuna traccia della Genova tanto cara al cuore di Verdi. In compenso commistione di stili: la povera plebe in veste epico-brechtiana, tuniche seriche rosso-dorate da rituale esoterico fine Ottocento, ancelle preraffaellite. Misterioso (per noi) il quadro immenso che sovrasta il Gran Consiglio: i ghiacci romantici alla Caspar David Friedrich (forse un allusione al Ponto Eusino a cui giungono i mercanti liguri o alla mitica Tartaria che ha inviato a Genova pegni di pace e doni?). Alla morte del doge assistono i genovesi trasformati in borghesi in redingote, tuba e corsetti di metà Ottocento. Ma a che tempo siamo? Lallusione alla società civile dellepoca, o forse al Risorgimento, è fuorviante. Nella versione dellopera proposta (1880), regnava in Italia Umberto I di Savoia. Tutte queste ibridazioni - perdonino i colti e i rinnovatori - hanno il gusto dellinsalata Arlecchino.
Il noto pessimismo verdiano è stato assorbito dal maestro Daniel Barenboim, cui spettava il non facile per lui compito di presentare unopera che alla Scala ha conosciuto edizioni che sono la storia dellillustre teatro milanese. Purtroppo luniformità del suono, gli accompagnamenti (che in Verdi sono abbellimenti) non certo leggeri - con tutto quanto ne consegue per il canto di cui sono la spina dorsale, i «rapporti» non sempre pertinenti, i tempi oltremodo adagiati, hanno indotto il loggione e più giù a consistenti deplorazioni, e, come capita in serate agitate, al lancio di epiteti e di altre munizioni di cui sono esperti lanciatori gli appassionati in piccionaia.
Per finire - e non sono parole di circostanza - su tutti ha dominato Placido Domingo.
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