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Don Camillo va in fumo: "Di questo Peppone non mi posso lamentare"

Un incendio avvicina il parroco di Brescello, don Giovanni Davoli, al sindaco Giuseppe Bottazzi, ora Vezzani. "Ha aperto una sottoscrizione. Ma nel precedente mandato teneva a stecchetto l'asilo..."

Don Camillo va in fumo: 
"Di questo Peppone 
non mi posso lamentare"

L’incendio divampato nella notte fra il 3 e il 4 aprile nella chiesa parrocchiale di Brescello si è rivelato molto selettivo e ha propiziato un miracolo in cui nemmeno don Camillo avrebbe osato sperare: la completa distruzione dell’altare rivolto verso il popolo. Il fuoco ha divorato solo il moderno manufatto ligneo, null’altro. Un lumino lasciato acceso, la plastica del bicchierino rosso che fonde, la fiammella che si propaga alla pedana e, oplà, 40 anni di riforma liturgica in fumo. Oggi dell’altare non resta che l’impronta sul pavimento. Lo scheletro carbonizzato è finito direttamente in discarica.
Giovannino Guareschi avrebbe intravisto un segno del cielo anche nella data. Il 3 aprile era sabato santo. E quando fu che Paolo VI, sull’onda del Concilio Vaticano II, mandò in pensione il rito tridentino di San Pio V, quello che dal 1570 si celebrava in latino al di là della balaustrata, voltando le spalle ai fedeli anziché al crocifisso, su altari veri, non su tavolini da picnic? Il 3 aprile 1969, giovedì santo. Coincidenze a parte, la settimana di Passione di don Giovanni Davoli, 52 anni, prete da 27, parroco della chiesa intitolata a Santa Maria Nascente, per effetto del rogo rischia di durare ancora a lungo: «Duecentomila euro di danni. E chi li ha?». Il costo dell’altare sarebbe il meno. È che il fumo denso prodotto dall’incendio - una zaffata acre che a distanza di tre settimane ancora aggredisce gola e narici - ha creato una patina nerastra sui muri e ora rischia di ossidare i colori dei preziosi dipinti appesi alle pareti, fra cui quattro tele di Palma il Giovane.
Ma per un altro di quei miracoli che accadevano nel Mondo Piccolo quando la furia degli elementi metteva da parte le passioni degli uomini, in aiuto dell’erede di don Camillo è subito accorso il sindaco Vezzani, un Peppone di nome e di fatto, visto che si chiama Giuseppe come il rissoso Giuseppe Bottazzi, pur non avendo potuto militare per ragioni anagrafiche - ha 41 anni - nel Pci. È stata così approvata senza indugi la proposta di Andrea Setti, vicesindaco nella Giunta di sinistra che Vezzani, iscritto al Pd e al secondo mandato, guida con spirito ecumenico: «Un euro, basta un solo un solo euro. Chi ha amato i film ispirati alla saga di Guareschi può versarlo sul conto della tesoreria comunale, Unicredit Banca, Iban IT59 R 02008 66180 000100362217, causale: restauro chiesa di don Camillo».
A Brescello, provincia di Reggio Emilia, la mitologia di don Camillo e Peppone è più viva che mai grazie allo zelo dei 50.000 turisti che ogni anno approdano da tutto il mondo sull’argine del Po - Guillaume Hien è venuto addirittura dal Burkina Faso - a cercare i fantasmi dei loro beniamini. Basti dire che nel 2005 fu recapitata al sindaco Vezzani una lettera firmata dal segretario nazionale dei Ds, Piero Fassino, inviata per posta «al caro sottoscrittore Giuseppe Bottazzi» all’inesistente indirizzo «via Lenin 21, 42041 Brescello».
Nonostante nelle ultime elezioni regionali solo 875 brescellesi abbiano votato per il Pd (35,6%), contro i 1.125 che si sono convertiti al centrodestra (45,7% fra Pdl e Lega), nell’iconografia ufficiale il parroco continua a mantenere le distanze dal sindaco, per la precisione 44 metri lineari, quelli che nella piazza principale del paese separano la statua bronzea con le sembianze di Fernandel, talare a 33 bottoni e tricorno, dalla statua bronzea con le sembianze di Gino Cervi, vestito della festa e fazzolettone rosso (il colore è lasciato all’immaginazione) al collo. Le due opere dello scultore Andrea Zangani demarcano i rispettivi territori: davanti alla chiesa don Camillo, davanti al municipio Peppone. Per lo stesso motivo, il bar intitolato al primo guarda la parrocchiale, il caffè intitolato al secondo guarda il palazzo comunale. Il sacrista Vittorio Gianelli ti indirizza solo nel locale che inalbera l’insegna «Don Camillo» scritta con rami nodosi come sul frontespizio dei libri di Guareschi - «dica che la manda il campanaro» - e un po’ devono essere cambiati i tempi, perché ci trovi a servirti una cameriera con una spettacolare balconata naturale valorizzata da push up.
Dei 39 parroci che si sono succeduti dal 1460 a oggi a Brescello, nessuno fu mai battezzato alla nascita col nome Camillo. L’attuale, arrivato nel 2007, non ha nulla del suo predecessore letterario e cinematografico, dita massicce a parte: né la ruvidità di carattere, né l’eloquio torrentizio. Ragiona con pacatezza, soppesando le parole. O è un dono di natura oppure ha imparato a controllarsi nel quartiere di Roma dov’è stato prete di frontiera per vent’anni, la Magliana, più famoso come trademark criminale che come toponimo. A un uomo di Dio così schivo si fa fatica a chiedere se parli col Padreterno come faceva don Camillo e ancor più se il Padreterno parli con lui. Il crocifisso, opera dello scultore veronese Bruno Avesani, sullo schermo si esprimeva con la voce di Ruggero Ruggeri (di Orson Welles nell’edizione inglese). È tuttora visibile nella «Cappella del Cristo dei films di “Don Camillo”», come segnala un cartello, la prima a sinistra appena entrati in chiesa. Che quello sia anche «Luogo per le confessioni sacramentali» diventa quasi incidentale.
Trascorso più di mezzo secolo, è come se il set non fosse mai stato smontato.
«Molti dei miei attuali parrocchiani hanno recitato nei film di Julien Duvivier e Carmine Gallone. È bello riconoscere nei vecchi di oggi i chierichetti di ieri. Per il paese fu un evento. Ogni comparsa aveva diritto a 500 lire più il cestino con salame, formaggio e pane».
Dell’incendio ha parlato tutta l’Italia.
«Grazie a Dio. Una tabaccaia di Parma ha visto un conoscente di Brescello e gli ha consegnato un euro per il restauro. La senatrice Albertina Soliani del Pd ha mandato un contributo personale. Giuseppe Pagliani, capogruppo del Pdl, ha proposto a tutti i consiglieri provinciali di Reggio Emilia di devolvere il gettone di presenza della prossima seduta».
E dall’estero?
«Da Sydney s’è fatto vivo Giuliano Montagna Guareschi, figlio naturale dello scrittore. Un giovane tedesco arrivato qui da Hannover con lo zaino in spalla ha preso la scopa e s’è messo a pulire insieme con noi. Era la terza volta che veniva a Brescello: le prime due volte aveva trovato la chiesa chiusa, la terza l’ha trovata bruciata».
Perché ha lasciato la Magliana?
«Dopo 20 anni mi stavo sedendo e a una parrocchia di 24.000 abitanti non serve un parroco seduto. Quando ci arrivai erano 45.000. Mai avrei immaginato d’essere nominato parroco di Brescello. Le cose belle del Signore giungono sempre inaspettate».
Come nacque la sua vocazione?
«In famiglia. Sono l’ultimo dei 10 figli di un contadino, la cui sorella ebbe a sua volta 10 figli, dei quali quattro consacrati: tre carmelitani e un paolino. Per scherzare, dico sempre che a quei tempi l’Azione cattolica funzionava. Ho due sorelle missionarie saveriane, una in Congo e l’altra in Messico. Fin da bambino non ho mai scartato l’ipotesi di farmi prete, anche se poi ho studiato per diventare perito agrario».
Quando ha deciso di mollare le semine per il seminario?
«Mentre ero sotto la naia tra Salerno, Napoli e Bolzano, trasmettitore alpino. Durante i turni di guardia in garitta le ore non passavano mai. Ho avuto molto tempo per riflettere. E lì ho fatto la scoperta dell’acqua calda: Dio mi ha amato per primo».
Qual è la maggior difficoltà per un prete, oggi?
«I preti sono chiamati a essere, prima che a fare. Quando lo capisci, il campanile non è più tuo. In don Camillo, pur fra mille protagonismi, questo continuo riferirsi al crocifisso c’è».
Finito il comunismo, ora va forte la Lega, che si oppone alla presenza in paese di 2.000 calabresi provenienti da Cutro e Isola Capo Rizzuto.
«Tutta Reggio Emilia è Cutro, tanto che si suol dire che a Cutro non sia rimasto nessuno. Li attira il lavoro, soprattutto l’edilizia. Idem gli africani e i pakistani. Non ci vedo problemi di sicurezza. Anche se un po’ di prudenza non guasta».
Un’amica di Fabbrico, 30 chilometri da qui, mi ha raccontato che gli immigrati islamici sputano per terra per disprezzo quando passano davanti alla chiesa.
«A Brescello è più facile che un italiano parcheggi il macchinone in sosta vietata giusto per farti sapere con chi hai a che fare».
Va d’accordo col sindaco?
«Ci sono occasioni di dialogo. Quando non sono d’accordo, lo dico. Con la precedente amministrazione civica è stata più dura confrontarsi sugli scarsi finanziamenti alla scuola materna che parrocchia e Comune gestiscono insieme, anche se il sindaco era lo stesso».
Bravo Peppone, allora.
«C’è chi si lamenta. Io non ho di che lamentarmi».
Il sindaco Vezzani si definisce «cattolico ma non praticante». Come si fa a non mettere in pratica ciò in cui si crede?
«È quello che mi dicono anche molti dei futuri sposi che si presentano ai corsi prematrimoniali. Io gli rispondo: è come se diceste a vostra moglie che le volete bene però preferite dormire sul divano». (Riceve una telefonata: «Salve sindaco, sto parlando di te con un giornalista»).
Questa era definita terra di senzadio. Lo è ancora?
«Ci sono belle famiglie in cui la presenza di Dio è riconoscibile, pur con gli inevitabili saliscendi. Non so se il Dio di tante altre persone sia quello di Gesù Cristo, mi pare più che altro il “Dio secondo me”. Bisognerebbe capire da quale Dio prendono le distanze».
Il suo confratello don Giuseppe Dal Pozzo, parroco di Taglio Corelli, una colonia dell’Urss, mi disse: «Deve capire che il Pci non era un partito, bensì una Chiesa. E il comunismo una religione. Per loro il tesseramento equivaleva al nostro battesimo».
«Sono nato a Castelnovo di Sotto e quand’ero ragazzo la situazione era questa: le vacche delle coop rosse facevano il latte rosso e le cantine delle coop bianche facevano solo il vino bianco. Ora i toni sono completamente cambiati. Può darsi che sia un benefico effetto dei film di don Camillo e Peppone. Le statue sono ai due lati della piazza, in mezzo c’è il popolo: se si perdono di vista le persone, le cose diventano tristissime, come ci hanno insegnato le vicende dell’Est».
Sull’ateismo don Dal Pozzo aggiunse: «Dio salva anche coloro che hanno fede nell’onestà. Non li ho mai scomunicati quando li vedevo accendere le candele davanti alle fotografie di Stalin, e neanche ci ridevo sopra. Anzi, dicevo fra me: siete santi. I cattolici la sera guardavano il varietà in Tv. Loro invece tornavano a casa dai campi, stremati dalla fatica, e si mettevano a studiare sui testi del partito. C’era da stare in ginocchio davanti a gente così».
«Ho ancora dei parenti di fede comunista: hanno sempre regalato le uova alle suore. Quand’ero curato a Cella, una signora appena rimasta vedova mi confidò: “Ci siamo sposati in municipio perché l’ha voluto il partito, ma chi ce l’ha ordinato s’è sposato in chiesa. Voglio che il funerale di mio marito si celebri in chiesa”».
Don Dal Pozzo avrebbe preferito battezzare i cristiani a 50 anni: «L’età giusta per capire che cosa stanno facendo».
«Mi è appena morta una nipote trentenne, moglie di uno stupendo sposo e madre di due stupende figlie di 7 e 4 anni. Quando sento le bimbe parlare della mamma che “è andata in paradiso”, mi chiedo: come si fa a sostenere che la fede corrisponde all’età psicologica? “Io non gli ho mai parlato di queste cose”, mi ha detto il padre».
Gliene avrà parlato la madre quand’era in vita.
«No. E cercano le prove da me, vogliono sapere se anche la mia mamma è in paradiso. A Lourdes e a Fatima la Madonna non ha parlato con i cinquantenni».
A che età le nuove generazioni si allontanano dalla religione?
«A qualsiasi età. Dai meno motivati la cresima è considerata come il capolinea: ricevuta quella, ti sei tolto il dente, hai fatto tutto. La frequenza alla messa festiva non va oltre l’8-10% dei battezzati».
Il suo confratello don Luciano Massaferro, parroco ad Alassio, è in carcere da mesi senza prove solo perché accusato di molestie sessuali da una minorenne. Come si difende un prete da un rischio simile?
«Con i bambini che manifestano un’affettuosità sincera faccio così: mi stampo un bacio su indice e medio della mano destra e poi gli sfioro la testa con queste due dita. L’ho imparato da un padre di famiglia in Brasile. Alla Magliana c’erano adolescenti capaci di capovolgere la realtà in un secondo. Sarebbero stati degli ottimi giornalisti».
Che cosa prova quando guarda il Cristo di don Camillo?
«Mi dico che in fondo sta compiendo una silenziosa missione popolare. Molti che non distinguono San Pietro da Sant’Antonio entrano in questa chiesa solo per curiosità, per cercarvi un simulacro cinematografico. Alla fine si fanno un segno della croce vero».
Nei film il crocifisso ha due volti intercambiabili: uno sofferente e uno sorridente. Quest’ultimo in Italia non s’è mai visto: la censura ecclesiastica trovava sconveniente che il crocifisso sorridesse. Invece nell’edizione francese Gesù si rallegra per un gol realizzato dalla squadra di don Camillo. Può un crocifisso sorridere?
«Sorridere in croce è dura». (Riflette). «Però ci sono sempre le braccia aperte».
(492. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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