Dispiace sentire che viene messa in discussione, da parte cattolica, la figura di Don Chisciotte, scelta quest'anno come simbolo dell'incontro di Comunione e Liberazione. A mio giudizio infatti si dovrebbe dire che si è aspettato troppo a farne il protagonista degli incontri di Rimini: se c'è un personaggio della letteratura che percorre in maniera compiuta l'itinerario della fede è proprio l'hidalgo di Cervantes.
Certo non è il cavaliere senza macchia e senza paura della tradizione medievale, la sua queste è particolare, non è un vincente, non è neppure un martire glorioso. In compenso è un uomo completo, con i suoi dubbi, le sue sofferenze, i suoi dolori, anche fisici, i suoi sogni e le sue illusioni, con la costante ricerca di qualcosa che gli appartiene, ma gli sfugge sempre. Le soddisfazioni che coglie si esauriscono o si dissolvono, perché la certezza e la stabilità non sono di questo mondo. Don Chisciotte sa che il creato ha facce diverse; non a tutti si mostra con il medesimo aspetto, anzi, una prima grande conquista è per ciascuno forgiare i propri personali strumenti per leggere quello che ci circonda. Anche in questo sta la modernità assoluta, accecante della Controriforma, che supera la Riforma protestante, in fondo legata ad una pretesa medievale di affermazione della certezza dimostrabile di una verità, dichiarando che ciascuno ha un proprio percorso individuale, il cui senso si rafforza dentro la Chiesa, il grande ponte fra il mondo relativo degli uomini e quello assoluto di Dio. Le voci migliori della scienza ci ricordano che sull'empirico possiamo solo dichiarare leggi statistiche, fare previsioni, non affermare verità o peggio dogmi.
Una parte notevole della critica letteraria attribuisce al Don Chisciotte la qualifica di primo romanzo moderno. Sono titoli difficili da assegnare e impossibili da discutere. Importante è ricordare e ribadire che l'opera nasce nella cattolicissima Castiglia dei primi del Seicento, quando esisteva una grande realtà politica che riuniva gli stati cristiani affacciati sul Mediterraneo occidentale: il 2005 è anno cervantiano perché quattrocento anni fa fu pubblicata la prima parte del romanzo. Il Don Chisciotte è un capolavoro che si affianca alla invenzione del barocco, rilettura particolare di quello che nel gotico era stato assoluto e invece si trasforma nella ricerca continua dell'equilibrio perduto.
E proprio il senso del dubbio, della mancanza di una certezza che nello stesso tempo viene percepita come necessaria, sta il dramma, contemporaneo, di Don Chisciotte. Il cavaliere dalla trista figura esprime una religiosità vittoriosa in Dio, ma non trionfante nell'uomo. Anzi, certifica che l'uomo, nessun uomo, può più permettersi di imporsi su di un altro uomo in nome di Dio. Questo non dà diritto a tirarsi indietro, a scivolare nell'agnosticismo, a rinunciare ad un faticoso percorso di fede. Don Chisciotte crede, sapendo che la sua fede è a rischio, che non è una certezza, ma, appunto, un affidarsi. E anche una conquista quotidiana. Alla duchessa che, nella seconda e più dolorosa parte delle sue avventure, gli chiede se sia sicuro dell'esistenza e della bellezza di Dulcinea, che non ha mai veduta, Don Chisciotte risponde «che quelle son cose da non indagare con troppo accanimento». Non perché non siano vere, ma perché non è la ragione lo strumento dell'uomo per penetrarle. La scolastica ha esaurito la sua funzione, l'arte precorre di quasi due secoli il dramma aperto da Cartesio e chiuso da Kant dell'impossibilità di raggiungere Dio con strumenti logici.
Infine, e soprattutto, penso che in epoche di guerre e conflitti di popoli, sia prezioso meditare su di una figura ferita e sofferente, che porta in sé proprio le ferite e le sofferenze della cristianità lacerata e dell'umanità tutta. È stato scritto che per essere diviso il pane deve prima venire spezzato. Solo così può divenire dono.
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