Don Gnocchi, l’eroe dei milanesi: è riuscito a mutilare la guerra

Domenica la beatificazione. Reduce dalla campagna di Russia, dove era cappellano degli alpini, si dedicò a soccorrere i bambini che avevano perso gli arti tra le bombe

Un giorno un gerarchetto gli portò un gruppo di ragazzotti, tutti disciplinatamente in fila. Don Carlo Gnocchi lo guardò perplesso, ma quello, forte del ruolo e della divisa che lo ricopriva, affermò risoluto: «I ragazzi sono qui per venire a messa». «Così non si va a messa», replicò il giovane cappellano militare. «I ragazzi - gridò il caporione - devono andare a messa». Don Carlo fece un passo avanti e con tono ultimativo, ancora più di quello del suo avversario, troncò il dibattito: «Chi vuole a messa, gli altri a spasso».
Don Carlo Gnocchi, finalmente sugli altari per la beatificazione, era fatto così. Capace di litigare a parti inverse e di alzare la voce per impedire che i giovani fossero irreggimentati per la messa come pecore. Del resto quella lite così paradossale può essere letta come il manifesto di un certo cattolicesimo ambrosiano che va dal cardinal Ferrari fino a don Giussani: Cristo sfida l’intelligenza e dà la libertà. Questo cattolicesimo, dalla forte intelaiatura razionale e dalle venature sociali, non ha paura di niente ma non è arrogante, semmai è ironico e autoironico. Del resto a Milano la Chiesa è alleata della ragione e il Settecento, il secolo dell’Illuminismo, non si chiude con i roghi ma con la posa della Madonnina sulla guglia più alta del Duomo.
Don Carlo aggiunge un elemento originale: la sensibilità verso il dolore, in primo luogo quello dei mutilatini abbandonati da tutti nell’Italia derelitta del dopoguerra. Di più: la consapevolezza che il dolore, il dolore innocente dei bambini saltati sui residuati bellici, il dolore dunque che ci scandalizza di più e ci porta alla bestemmia, può essere utilizzato. Quella sofferenza è addirittura, come scriverà in «Pedagogia del dolore innocente» poco prima di morire nel 1956, un tesoro, una ricchezza che non dev’essere sprecata. E che può servire da carburante per costruire pezzi di vita e di civiltà, famiglie, diplomi e lauree, carriere.
È un paradosso, uno dei tanti di una vita frenetica: don Gnocchi va come cappellano militare nell’inferno bianco della Russia. I suoi alpini muoiono come mosche nella sventurata Ansa del Don, lui stesso sopravvive per miracolo e partecipa alla ritirata, terribile, a suo modo epica. Segnata dagli scontri sanguinosi con l’Armata rossa. Ma proprio in quella catastrofe, proprio davanti allo scempio degli uomini e al silenzio di Dio, incredibilmente non solo non vacilla, non solo non tentenna come uomo e come cristiano, ma scopre finalmente la sua vera vocazione. Servire gli ultimi, e le vittime più vittime della guerra, i figli degli alpini, gli orfani, infine i mutilatini.
È il genio del cristianesimo, spinto in avanti dalla fede: trovare un lembo bianco dove gli altri vedono solo una pagina nera. Da quel momento, per i dieci anni o poco più che gli restano, don Carlo vive una vita accelerata, satura di impegni: per quei bambini segnati dalle bombe inventa dal nulla la riabilitazione, per loro batte cassa dalle grandi famiglie milanesi, a cominciare dai Moratti, per sensibilizzare l’opinione pubblica su questa tragedia rimossa da un’Italia immersa in mille altri problemi, coinvolge grandi giornalisti e registi del calibro di De Sica e Zavattini, con cui girerà un breve documentario.
È difficile tenere il passo di don Carlo e ci si chiede, quasi sgomenti, come abbia fatto a tenere insieme, con un’imprenditorialità tipicamente lombarda, tutte queste iniziative. Eppure don Carlo non perde un colpo: accompagna i suoi ragazzi dal Papa, sdoganandoli, li fa giocare a pallone inventando strumenti artigianali per facilitare le partite, porta le foto dei suoi mutilatini a Roma e le mostra ad un giovane Giulio Andreotti, battaglia con e conto il Parlamento per dare ai suoi sforzi una veste legislativa adeguata.
Poi, prima di morire di cancro, alla clinica Columbus di Milano, decide di donare le cornee a due suoi ragazzi: don Carlo è un santo, non un santino, e dunque se ne infischia degli sbarramenti posti dalla legge e delle dispute dei teologi moralisti. Muore offrendo una prova suprema di amore e di libertà. Ma muore anche com’è sempre vissuto: da anticonformista, muovendosi su un terreno che non è delimitato dai paletti delle buone maniere e delle convenzioni sociali.
Ai suoi funerali, tenuti in Duomo, davanti ad una folla di centomila persone, il cardinal Montini, futuro Paolo VI, lascia umilmente la parola ad un mutilatino. E la predica del bambino è un telegramma che va dritto al cuore: «Ciao, prima ti chiamavo don Carlo, ora ti chiamo San Carlo». Una profezia che oggi è finalmente realtà.

Com’è una realtà l’opera da lui fondata: «Amici - sono le sue ultime parole, spruzzate di modestia e di sottile ironia -, vi raccomando la mia baracca». Oggi che i mutilatini non ci sono più, la baracca, un insieme cresciuto nel tempo di ospedali e centri ad alta specializzazione, assiste migliaia di disabili in tutto il mondo.

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