Don Verzè: «Il San Raffaele aprirà ad azionisti privati»

Il San Raffaele apre all’ingresso dei privati nell’azionariato. Una decisione annunciata dal fondatore del gruppo ospedaliero milanese, don Luigi Verzè, in una forma un po’ irrituale: una lettera aperta pubblicata dal settimanale Panorama. «Se il San Raffaele è proprietà del Paese Italia - scrive il sacerdote - non potrebbe essere avviato un azionariato nel quale la Fondazione San Raffaele avesse la maggioranza utile a garantire le finalità fondazionali e la migliore gestione? Certo, è quello che, per coerenza, si sta programmando con l’ausilio di un prestigioso advisor finanziario, al quale è stato affidato l’incarico di assistere la Fondazione nella predisposizione e realizzazione, in tempi brevi, di un piano di ristrutturazione del debito a tutela di tutti i creditori».
Il presidente della Fondazione Monte Tabor risponde così, colpo su colpo, a chi - sulle pagine dell’Espresso, la settimana scorsa - lo aveva accusato di un’eccessiva esposizione con le banche, nell’ordine degli 800 milioni di euro. Addirittura titolando: «Solo un miracolo può salvare don Verzè». Un’affermazione «contro la verità e contro il buon senso», ribatte il fondatore di uno dei maggiori centri di ricerca medica mondiale: «Né banche né fornitori hanno avuto dubbi sulla solidità del San Raffaele», afferma: le prime, «con gli interessi che ricavano dall’istituto, sempre puntualissimo, per i prestiti concessi con debite garanzie possono pagarsi lo stipendio di diversi loro dirigenti», mentre i secondi, «benefattori del San Raffaele con la loro pazienza, vengono lentamente pagati, quelli più bravi senza carico di interessi sul ritardo».
Per don Verzè è una questione, più che finanziaria, esistenziale: «La mia vita - ricorda, a pochi giorni dal 91esimo compleanno - è stata un continuo conflitto con il denaro necessario a coprire le attività atte ad assicurare al San Raffaele nuovi reparti, nuovi ricercatori, nuovi macchinari; a far venire dall’estero tecnologie all’avanguardia per guarire, così da farne un tempio della medicina, come ci ha insegnato Gesù».

Anche perché l’Istituto «non è un’impresa finanziaria, un’imprenditoria che debba avere degli utili: gli utili sono il rispetto e la cura delle persone, l’insegnamento e la ricerca, che non possono essere obiettivi finanziari. Fare bene costa. Fare il meglio costa di più», conclude don Verzè.

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