Donna cinica, passionale e femminista suo malgrado

Era in lista d’attesa da così tanto tempo che ormai quei giornalisti che accetta raramente di incontrare avevano eliminato dalle domande quella sul Nobel. E invece ieri mattina - mentre Doris May Taylor, 88 anni il 22 ottobre, tra le più prolifiche scrittrici in lingua inglese, era a far la spesa nei dintorni della sua casa di Hampstead, il quartiere radical chic di Londra dove vive in una «preziosa solitudine con gatto» - il mondo ha saputo che infine l’Accademia svedese le ha conferito il riconoscimento.
Dei cinque anni d’infanzia a Kermanshah, oggi Iran, allora Persia, dove nasce nel 1919 («Con il forcipe: chi può dire se quella nascita così dura abbia segnato anche il mio temperamento?»), figlia del capitano Alfred Taylor, mutilato di guerra, e di «una brava donna convenzionale, che avrebbe dovuto sposare un grossista e restarsene in Inghilterra», ricorda l’odore di urina e il viaggio per venirne via, con quella sosta a Mosca, piena di piccoli orfani della guerra civile. Andava in Rhodesia, oggi Zimbabwe, a metter su una fattoria, la famiglia Taylor, in piena campagna (altro che echi dell’Africa di Nadine Gordimer, in Lessing: «Lei era una ragazza di città, io una del bush»).
Scrive e legge forsennatamente sin da bambina, grazie ai libri che sua madre fa arrivare dall’Inghilterra («Non le devo molto altro. Spingeva perché fossi qualcuno, ma poi voleva appropriarsi di me»), scappa dal collegio a 13 anni, a 15 è fuori di casa e a 19 sposata con Frank Wisdom: «Le provai tutte, casa, cucina, bambini, ma mi annoiavo fino alle lacrime». Nel primo volume della sua autobiografia, Sotto la pelle (vi aggiunse il secondo, Camminando nell’ombra, ma il terzo lo narrò in forma di romanzo, Il sogno più dolce, per non «ferire persone vulnerabili») racconta: «Capii all’improvviso, mentre cambiavo un pannolino. C’era tutto un mondo di idee delle quali non sapevo niente». Dopo due figli, si separa e si ritrova sola nel ’43 a Salisbury. Si iscrive al Partito comunista e si risposa con l’attivista comunista ebreo-tedesco Gottfried Lessing, con cui ha un figlio, Peter. Nel ’49 si separa di nuovo e nel ’54 divorzia anche dal partito. Si trasferisce in Inghilterra con Peter e nel ’50 pubblica il suo primo romanzo, L’erba canta.
Da allora non si è più fermata: oltre cinquanta opere di narrativa - compreso un ciclo di fantascienza, Canopus in Argo - poi saggi, testi per il teatro e articoli. Apartheid, adolescenza, sesso, amore, passione senile, terrorismo: sono soltanto alcuni dei temi toccati da questa rigida gentildonna, issata a vessillo del comunismo prima, del femminismo poi - Il taccuino d’oro (1962) divenne la bibbia del movimento di emancipazione delle donne -, bandita da Zimbabwe e Sudafrica per una trentina d’anni, in grado di mettere alla prova persino la potente macchina letteraria mondiale, spacciando nel 1983 il suo Diario di Jane Somers come prova di un’esordiente.
Di Dio dice che «è più antico delle religioni», della felicità eterna che è «un sogno infantile», dei vecchi che si sono «adeguati alle aspettative altrui sulla loro età biologica» e han tirato i remi in barca. Forse cinica, forse solo una donna con le idee chiare, Doris Lessing è maestra di critica e di autocritica. Le femministe? «Donne farisaiche e presuntuose, un movimento autocompiaciuto, tutto preso a pavoneggiarsi».


E i comunisti? Vittime rammollite del Sogno più dolce (2002), quello di replicare il Paradiso in terra: «Assassini con la coscienza pulita, pronti a sterminare milioni di uomini e poi commuoversi per il destino di cani e balene».

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