Le donne battono la jihad con il football americano

Sono poche, si allenano con gli uomini, non hanno divise. Ma fanno paura agli integralisti

Luigi Guelpa

S abrina non sogna Beckham, come Jess, la protagonista della pellicola di Gurinder Chadha. Semmai immagina di diventare la versione al femminile di Peyton Manning, il leggendario quarterback di Denver e Indianapolis. «Ne ho viste di tutti i colori da quando ho deciso di dedicarmi a tempo pieno allo sport, e chissà quante ne vedrò ancora». Sabrina ci scherza sopra, e non potrebbe esserci migliore antidoto per cancellare gli stereotipi di una donna marocchina che lei non incarna affatto. Forse ciò accade perché la protagonista di questa storia ha deciso di diventare una campionessa di football americano, disciplina poco praticata in Africa, figuriamoci in Marocco e per giunta al femminile. Dal 2015 la 23enne Sabrina Mziguirr è il capitano, l'allenatore, ma anche la presidentessa delle Black Mambas di Rabat. È riuscita a mettere assieme una squadra di quindici atlete, tutte appassionate di football dopo la classica folgorazione televisiva propiziata dall'antenna parabolica. «Per fortuna che esiste il satellite - racconta - diversamente dovremmo sorbirci ore e ore di telenovele egiziane. Dalle nostre parti il palinsesto non offre molto». Galeotto fu il Super Bowl del 2015 a Glendale (Arizona). Sabrina e le sue amiche si sintonizzarono su un canale tv a stelle e strisce per assistere all'esibizione canora dei Coldplay, Katy Perry e Rihanna, e invece furono stregate da quello che accadde in campo tra New England Patriots e Seattle Seahawks. «Ci siamo dette, perché no?». E nel giro di qualche giorno hanno iniziato ad allenarsi dopo essersi documentate su YouTube per imparare almeno l'abc di una disciplina dove corsa, aggressività e forza d'urto sono di fondamentale importanza. In Marocco il football americano è apparso per la prima volta nel 2012, grazie ai Rabat Lions, seguiti a ruota dai Casablanca Stars e dai Tangier Dragons. Ovviamente stiamo parlando di squadre maschili. Declinare al femminile uno sport lontano anni luce dal cliché della donna di un paese musulmano sembrava fantascienza. Gli inizi sono stati piuttosto travagliati, le quindici ragazze non avevano neppure un campo dove allenarsi e in mancanza di strutture Sabrina e le sue amiche hanno optato per la spiaggia di Oudayas ai piedi dei bastioni della famosa Casbah, classificata patrimonio mondiale dell'Unesco. «Non avevamo né casco e neppure protezioni. Gli infortuni erano all'ordine del giorno». E ancora oggi le cose non sono cambiate di molto. Non è raro vedere le Mambas giocare a piedi nudi, ma la loro ostinazione inizia a produrre risultati. Adesso la squadra è strutturata, il gioco sta aumentando di intensità e si inizia persino a parlare di tattiche.

La loro storia somiglia alla vicenda antesignana delle giovani afghane che nel 2004 a Kabul, nonostante i talebani seminassero il terrore, riuscirono a mettere in piedi la nazionale di calcio. L'idea era venuta in mente a Khalida Bhopal: formò un gruppo che provava schemi col pallone nel Giardino delle donne, un parco il cui ingresso era vietato agli uomini. Tutti fuori dalla portata tranne Abdoul Walizad, una sorta di supervisore che osservava le ragazze da lontano, non entrava negli spogliatoi e che si avvaleva della collaborazione di due donne che di fatto riferivano a Khalida e alle altre le sue disposizioni. Anche quello che stanno portando avanti le Mambas è un atto di coraggio. Non essendoci squadre avversarie alle ragazze del football americano in salsa maghrebina non resta altro da fare che misurarsi contro gli uomini, per altro in un luogo pubblico, come la spiaggia di Oudayas. «Cerchiamo nuove adesioni, se non altro per disporre di due squadre, ma a causa delle pressioni familiari e sociali il compito non è facile». Solo la scorsa primavera le Mambas sono riuscite a mettere la testa fuori dal guscio, invitate al Cairo dalle Pink Warriors, ma il risultato è stato disastroso. «Non siamo neppure riuscite a fare un solo touchdown - racconta Maroua Alouaoui, una delle veterane della formazione maghrebina e giocatrice di linea d'attacco - però almeno abbiamo potuto avere al nostro fianco un tecnico uomo. In Marocco ce l'avevano impedito». Sono persino fioccate le prime minacce da parte di gruppi vicini al terrorismo jihadista, ma Sabrina non sembra avere paura. «Non è solo sport, le Mambas rappresentano anche un'opportunità per parlare delle nostre opinioni sulle donne arabe, che non vorremmo più vedere nella condizione di sottomesse e velate. Sapevamo che tutto questo avrebbe dato fastidio, ma fisicamente non temiamo il confronto con i miliziani...».

In un Marocco votato al cambiamento, dove re Mohammed VI è riuscito a spegnere le intemperanze della fratellanza musulmana, affidando la conduzione del governo al moderato Saadeddine El Othmani, e ordinando la chiusura di tutte le sartorie del Paese che confezionavano burqa, le Mambas potrebbero rappresentare un valore aggiunto.

Di loro, recentemente, si è interessata anche la scrittrice di Rabat, trapiantata a Parigi, Leila Slimani, vincitrice del premio Goncourt e autrice di libri come Nel Giardino dell'Orco che parlano del sesso con garbo e spontaneità. «Diventasse la nostra madrina e la nostra ambasciatrice nel mondo sarebbe il massimo», ammette la running back Sarra Bouanani.

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