Donne uccise e chiuse in valigia: quando il killer rischia troppo

Donne uccise e chiuse in valigia:  quando il killer rischia troppo

Amedeo Ronteuroli*

Gli omicidi avvengono quasi sempre in condizioni e con modalità riconducibili ad alcuni elementi paradigmatici che si ripresentano sistematicamente. All’interno di questi, può essere interessante ricercare le variazioni sul tema introdotte di volta in volta nelle diverse circostanze in rapporto all’indole, all’intelligenza e alla cultura dei diversi criminali, oltre che alle condizioni mentali più o meno equilibrate, più o meno sane, di ciascuno di essi.
Uno degli aspetti di maggior interesse, in particolare per chi abbia qualche propensione per il Grand Guignol, è certamente quello della «gestione» del cadavere.
Va detto che in molti casi, vuoi per l’urgenza del momento, vuoi per una certa sicurezza di non essere individuato, l’assassino si disinteressa del corpo dell’ucciso, in altri, soprattutto quando si tratta di omicidi dimostrativi, ad esempio in una logica mafiosa o terroristica, i resti del morto possono essere addirittura messi in evidenza, magari sfregiati e deturpati.
In molti casi di omicidio, viceversa, si pone per l’autore del delitto la necessità di occultare il corpo della vittima, per impedire che il reato commesso venga alla luce - quando l’autore ritenga che altrimenti la propria colpevolezza potrebbe troppo facilmente essere scoperta dall’autorità - e in taluni casi forse anche per una inconscia volontà dell’assassino di negare a se stesso l’atrocità commessa, rimuovendone la più evidente testimonianza.
Negli ultimi decenni, si sono presentati in Liguria diversi casi di omicidi seguiti dall’occultamento del cadavere, avvenuto, il più delle volte, con metodi piuttosto sbrigativi. Si tratta di resti bruciati o seppelliti o zavorrati in mare, o perfino conservati in frigorifero: tutti comportamenti disgustosi e feroci, in cui si giunge anche al punto di infierire ulteriormente sul corpo dell’ucciso. Ci soffermeremo anche su alcuni casi notevoli in cui la pianificazione accurata del crimine ha comportato il ricorso ad uno specifico strumento di trasporto: la valigia, previo sezionamento del cadavere.
Tutti coloro che oggi hanno più di cinquant’anni ricordano che a Genova, nel 1971, uno studente universitario di buona famiglia - Lorenzo Bozano - dopo aver ucciso la figlia di un noto industriale di origine svizzera - Milena Sutter - si sbarazzò del corpo abbandonandolo in mare dopo averlo zavorrato con piombi da subacqueo. Il ricordo della vicenda è ancora talmente vivo, anche in rapporto all’andamento del processo ed agli eventi successivi, anche abbastanza recenti, che è difficile parlarne qui con il necessario distacco. Basti dire che il peso utilizzato non fu sufficiente a trattenere il corpo sott’acqua abbastanza a lungo e che ciò ne determinò il ritrovamento, con le conseguenze note.
Quasi dieci anni dopo, nell’entroterra di Savona, la signora Caterina Martino, dopo aver ucciso a seguito di una lite il marito ubriaco, ne legò il corpo ad un cavallo, per trasportarlo fino ad un pozzo artesiano abbandonato, dentro al quale lo nascose. Successivamente ne denunciò la scomparsa. Tutto sarebbe andato bene se il Comune non avesse disposto per altre esigenze un accertamento da parte dei propri tecnici. Il cadavere fu ritrovato e la Martino dovette confessare il proprio delitto.
Erano passati pochi mesi dall’affare Martino quando a Moconesi, nell’entroterra di Chiavari, venne rinvenuto un bidone contenente i resti semi carbonizzati di una ragazza: bastarono pochi giorni per scoprire che si trattava di Anna Maria Calvano, studentessa e figlia di un notaio di Saronno, che era tra l’altro proprietario di un appartamento a Chiavari, dove trascorreva il periodo estivo con la famiglia. Fu relativamente facile, per gli inquirenti, risalire da questi elementi ad Alberto De Barbieri, un giovanotto che conosceva i Calvano ed aveva un rapporto di amicizia con la ragazza, avendo svolto alcuni interventi presso la casa di Chiavari. Questi, dopo aver incontrato Anna Maria a Milano, dove questa studiava, le aveva offerto un passaggio a casa, trasportandola invece poi in riviera, uccidendola e bruciandone i resti, con la collaborazione di un conoscente chiavarese: Giuseppe Gaeta. De Barbieri non ha mai ammesso di aver ucciso, affermando di aver solo bruciato il corpo dopo che la ragazza era morta; quanto a una telefonata con richiesta di riscatto effettuata dall’assassino quando la vittima era già deceduta, sembra che si trattasse di un tentativo di depistaggio. Dopo ripetuti processi De Barbieri è stato condannato all’ergastolo per omicidio premeditato. Il suo complice, considerato succube, ha invece subito una condanna a 23 anni.
Ancora nel 1980, questa volta a Genova, si ha un altro - maldestro - tentativo di eliminazione di cadavere con il fuoco: il caso Rossi-Giordano, per la cronaca «gli amanti diabolici», che uccisero con una calibro 22 il marito di lei nella sua abitazione di San Martino, lo avvolsero in una coperta e lo trasportarono sul Monte Fasce dove tentarono di bruciarlo, peraltro con un grande risultato, tanto che furono facilmente individuati e subirono pesanti condanne.
Stessa sorte toccò, nel 1999, a Sergio Truglio, genovese, che nel corso di una lite con una prostituta la accoltellò a morte, dopodiché ne trasportò il cadavere con la propria auto fino alle alture accanto a Lumarzo, ove tentò di bruciarlo. Nel tentativo di evitare di essere riconosciuto, l’uomo applicò alla propria Alfa Romeo rossa la targa sottratta alla vettura di un vicino. Tuttavia, gli andirivieni dell’auto con cui Truglio si procurò la benzina necessaria attirarono l’attenzione... Insomma, anche in questo caso l’omicida venne rapidamente individuato e catturato.
Vale la pena di ricordare ancora un caso particolare di occultamento, in cui giocano componenti sociali e psicologiche assai diverse da quelle intuibili nelle situazioni viste più sopra. Si tratta della storia di Nunziata Tallone, nata a Riesi nel 1942 e residente a Genova nella zona del Giro del Vento. Nel 1988 la donna, rimasta incinta del proprio amante, tenne nascosta la gravidanza e perfino il parto al marito, geloso e prepotente. Non riuscì tuttavia ad evitare che la bambina così messa al mondo morisse, in assenza delle cure necessarie, rese impossibili della segretezza del parto. In questa situazione di degrado e di follia la donna non trovò da fare nulla di meglio che conservare nel freezer per circa tre mesi il corpicino della bimba morta, fino a quando decise di autodenunciarsi per l’infanticidio commesso.
E veniamo ai cadaveri in valigia. I casi che ci interessano sono quattro, il più remoto dei quali risale al 1903 e si svolge in buona parte sulla scena di Milano, ma con epilogo a Genova.
La sera del 24 maggio di quell’anno, nelle acque del porto di Genova fu ripescata una valigia avvolta in un pacco. Conteneva i resti di un essere umano, che sulle prime sembrò un maschio. Ad un esame più attento risultò invece trattarsi di una giovane donna. Essendo nel frattempo giunta notizia che a Milano in quei giorni era stata segnalata la sparizione di una certa Ernestina Beccaro, la polizia si rivolse immediatamente al di lei marito: Alberto Olivo. Questi fu riconosciuto da un vetturale e da un barcaiolo, con i quali aveva avuto a che ridire per questione di soldi. Confessò senza opporre particolare resistenza. La storia è interessante.
Alberto Olivo era nato a Udine nel 1856 da una famiglia di artigiani e, rimasto presto orfano del padre, era stato allevato dalla madre, donna di carattere energico, e poi, morta anche questa, da una zia materna. Fece studi regolari, con eccellenti risultati sia in matematica che nelle materie letterarie, di cui sarebbe poi stato cultore per tutta la vita, dilettandosi anche nella composizione di poesie. Dopo aver girato per l’Italia svolgendo diverse attività, giunse finalmente a Milano, nel 1889. Anche qui, per alcuni anni si dedicò a diversi impieghi fin quando, nel 1900, fu assunto alla Richard Ginori, con la qualifica di contabile. Nel frattempo, nel 1895 aveva conosciuto, alla trattoria del Falcone che frequentava regolarmente, Ernestina Beccaro, con la quale era entrato presto in confidenza.
Costei, che aveva allora 22 anni, era nativa della zona di Biella. Figlia di una famiglia assai numerosa, alla morte del padre era partita per Milano, per andare a servizio. Tuttavia, il suo carattere vivace e ribelle le aveva procurato non pochi guai: oltre a dover spesso cambiare luogo di lavoro, era stata sedotta e abbandonata da un viaggiatore di commercio e da quel momento aveva avuto diverse frequentazioni maschili ed aveva dovuto sottoporsi a cure presso l’Ospedale dei sifilitici. La sua ultima relazione, prima di imbattersi nell’Olivo, fu quella con Antonio Colombo, un cinquantenne piccolo e gobbo che, in un modo o nell’altro, iniziò a passarle denaro per il mantenimento e la sistemò in via Falcone, presso una sarta per la quale Ernestina cominciò a svolgere qualche lavoro. Fu a questo punto che i due si incontrarono.
La testimonianza rilasciata da Colombo al processo, circa l’incontro tra i due, parla di un interessamento benevolo dello stesso Colombo per la ragazza, tanto che questi avrebbe voluto conoscere personalmente l’Olivo al quale, accertatene le buone intenzioni, avrebbe dato il proprio benestare per il matrimonio. Dagli altri atti del processo, peraltro, sembrerebbe ipotizzabile una storia un po’ diversa, per cui Ernestina sarebbe stata oggetto di una trattativa economica tra il vecchio ed il nuovo pretendente, che per ottenere la donna avrebbe sborsato 500 lire.
L’unione tra i due, dunque, parrebbe avvenire nel segno del denaro, rispetto al quale Alberto ed Ernestina hanno un atteggiamento assai diverso: avaro ed ossessivamente pignolo lui, quanto lei è ben disposta a spendere. Del resto sembra probabile, anche richiamando quanto detto sopra a proposito dell’Ospedale dei sifilitici, che la nuova signora Olivo arrotondi le magre risorse rese disponibili dal marito con l’esercizio di un mestiere antico quanto il mondo. Malauguratamente non abbiamo elementi per sapere se di queste entrate l’uomo sia anche partecipe diretto, tenuto conto del cospicuo investimento che questo bel matrimonio ha richiesto. Quello che è certo, è che l’esistenza di diversi amanti viene confermata dalla testimonianza di una vicina di casa.
Nel settembre del 1901, i due trasferiscono la propria abitazione in piazza Macello 25 (a questo punto tutti i commentatori sottolineano che il nome della piazza suona sinistramente premonitore). Il cambio di casa non comporta un miglioramento dei rapporti, che anzi peggiorano. Ernestina spende e Alberto vuole impedirglielo: le liti si succedono furibonde. Fino all’epilogo.
Diversamente dal marito, Ernestina non ha compiuto neanche gli studi elementari e vuole imparare a leggere e scrivere. Decide di prendere lezioni private. Manco a dirlo, il marito è contrario. Dopo pochi giorni, si reca presso l’abitazione dell’insegnante che segue la consorte, dandole ordine di chiudere la faccenda. Quando la moglie lo viene a sapere, si infuria. Per due giorni, il 15 e il 16 maggio, tra i due volano parole grosse ed entra in scena un coltello, col quale la donna, secondo la versione di Olivo, minaccia il marito. Sempre stando alla versione dell’omicida, il raptus si scatena nel momento in cui Ernestina lancia insulti contro la di lui madre. Perso il lume della ragione, lui afferra il coltello con cui è stato più volte minacciato ed uccide la donna. Questa la versione strenuamente sostenuta dall’uxoricida.
La scena ricostruita da altri, sulla base di alcune testimonianze relative ai rumori ed ai tonfi della lotta e soprattutto in base alle risultanze dell’autopsia, escluderebbe invece un raptus omicida concretizzatosi in una sola e fatale coltellata. Le numerose ferite al capo e alle costole rotte, derivanti da colpi inferti certamente prima della morte, fanno invece supporre che l’Olivo non abbia ucciso la donna quasi per errore, con un unico colpo, ma che l’abbia coscientemente massacrata, per poi finirla con il coltello.
La mattina successiva al delitto è domenica. L’assassino esce di casa e a una vicina - preoccupata per i rumori della baruffa notturna - che gli chiede notizie della moglie, risponde che questa ha voluto andarsene ed è partita per Biella. Dopodiché passa la giornata fuori casa, andando dal barbiere e in trattoria. Il cadavere, nel frattempo, è rimasto in cucina, e vi resterà per quattro giorni, mentre l’Olivo riordina l’appartamento e i documenti, con l’intenzione - almeno così dichiara - di consegnarsi il giovedì. Con il passare del tempo, tuttavia, gli si insinua il pensiero che potrebbe farla franca, così che comincia con il raccogliere in una valigia gli abiti della moglie e li porta a Monza, dove li vende ad un rigattiere, ricavandone 12 lire e 50 centesimi. Sebbene poi affermi di averlo fatto per liberarsi in qualche modo di quella roba, si esprime qui ancora una volta quello spirito taccagno che finirà per perderlo.
Quattro giorni sono passati e il cadavere comincia a puzzare. Occorre fare qualcosa, o i vicini, già preoccupati, vedranno confermati gli eventuali sospetti. Trasformatosi in macellaio, squarta il cadavere, ne estrae le viscere che smaltisce attraverso la tazza igienica della toilette e poi si concede il meritato riposo trasferendosi a dormire in una pensione poco distante da casa. La mattina dopo termina l’opera asportando la carne dagli arti della morta e poi impacchettando i resti dopo averli ben coperti di naftalina e sistemandoli in valigia. Il sabato va in ufficio a lavorare e poi, a fine giornata, recupera la valigia e parte per Genova, dove pensa di terminare l’opera.
Qui comincia la serie di scenette che gli sarà fatale: prima, a Milano si fa aiutare da due ragazzini a portare la valigia, ma dà loro una mancia inadeguata sicché questi mettono su una discreta cagnara; poi, a Genova, litiga, ancora per questioni di tariffe, con il vetturino che lo porta all’albergo. Infine, dopo essersi fatto trasportare in giro per il porto per diverse ore da un barcaiolo, si decide a buttare in acqua un grosso pacco avvolto in carta blu. Quando il marinaio gli chiede di cosa si tratti risponde: «Niente, è roba per la quale non voglio pagar dazio». Il guaio è che la valigia non si decide ad affondare, e poche ore dopo sarà ripescata da un facchino, vicino a riva. Il resto lo abbiamo già raccontato.
Ma la storia non finisce qui. Il 9 giugno 1904, pochi giorni dopo l’inizio del processo, comparve sul Corriere della Sera un articolo di Cesare Lombroso, il famosissimo esperto criminologo e padre della nota teoria che porta il suo nome, in cui si affermava che Olivo non era un criminale in senso stretto, bensì un «criminaloide» in quanto aveva ucciso in uno stato di coscienza crepuscolare durante un accesso epilettico - va infatti detto che in gioventù l’assassino era stato soggetto ad alcuni attacchi epilettici. L’accesso sarebbe stato provocato dall’atteggiamento della moglie. Vi sarebbero quindi state delle attenuanti significative... tanto significative che il tribunale finì per assolvere l’Olivo dall’accusa di omicidio intenzionale e, non essendo stata formulata esplicitamente un’ipotesi subordinata di omicidio preterintenzionale o colposo, si limitò a condannarlo a 12 giorni di carcere e 125 lire di multa per lo scempio del cadavere.
I giornali italiani ed esteri sollevarono, come era ovvio, un grave scandalo per quanto accaduto, e la Cassazione annullò il processo disponendone la ripetizione a Bergamo. Il risultato, tuttavia, fu, incredibilmente, identico. I commentatori si soffermano su alcuni macroscopici errori in cui sarebbero incorsi il procuratore del Re e gli avvocati di parte civile. Sia consentito a chi scrive di avanzare un’ipotesi diversa.
Va ricordato che a quei tempi il regime giuridico della donna, in materia civile, ma forse ancor più in materia penale, era fortemente squilibrato sulla base delle perduranti prevenzioni sociali circa la presunta inferiorità di questa rispetto al maschio. Basta ricordare lo jus corrigendi (cioè di battere i figli e la moglie) riconosciuto al capo famiglia e ancor più il delitto d’onore, che rimarrà nel nostro codice penale fino a dopo la seconda guerra mondiale. A questo punto, l’intervento pubblico di Lombroso, la clamorosa sentenza che induce ad escludere l’errore, facendo invece propendere per una scelta precisa: in fondo l’Ernestina era una serva ignorante, dedita in modo più o meno occasionale alla prostituzione, ed aveva provocato il marito insultandone la madre (!!) mentre Alberto Olivo era un serio contabile di una nota Ditta, letterato, poeta e inventore, con qualche problema di equilibrio legato ai precedenti attacchi epilettici e, infine, evidentemente cornuto.

Non ci sarebbe da stupirsi se, data la mentalità dell’epoca, una buona parte di coloro che furono coinvolti nelle decisioni sulla sua sorte avessero nutrito dei forti dubbi sulla reale opportunità di punirlo per l’omicidio commesso.
*Esperti del centro studi Criminalistica Genova
(1 - continua)

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica