Il doppiopesismo degli europei segna la fine della politica estera Ue

Il doppiopesismo degli europei segna la fine della politica estera Ue

La rapida avanzata dei ribelli libici, protetti dall’aviazione alleata, nel Golfo della Sirte e la graduale estensione della rivolta araba a sempre nuovi Paesi stanno mettendo in crescente imbarazzo i governi occidentali. Gli interrogativi si accavallano. Fino a che punto è lecito intervenire nella guerra civile libica sulla base della risoluzione del Consiglio di sicurezza? È legale attaccare le truppe lealiste quando non minacciano la popolazione civile, ma si limitano a combattere i ribelli? Si può fornire armi a questi ultimi, nonostante l’embargo che sulla carta riguarda l’intero Paese? L’intervento deve essere solo umanitario o può avere come obbiettivo anche l’abbattimento del regime o addirittura la eliminazione fisica di Gheddafi? Come lo si può giustificare sul piano morale se non si procede anche contro il regime siriano, che sta massacrando la popolazione civile esattamente come faceva il colonnello? Quanto ci si può fidare dei ribelli? In quali Stati appoggiare la piazza conviene e in quali sarebbe autlesionistico? Le risposte a queste domande variano da Paese a Paese, dando vita a contrasti sempre più forti e favorendo inedite alleanze: nella Ue, per esempio, si sta delineando un asse italo-tedesco, che giudica eccessiva e potenzialmente pericolosa la interferenza di Parigi e Londra in Libia e spinge per una soluzione negoziata, che eviti nuove stragi e tenga conto che Gheddafi, senza aviazione e con le armi pesanti decimate, mantiene pur sempre il controllo della Tripolitania e difficilmente potrà essere sloggiato manu militari senza andare molto oltre la deliberazione dell’Onu. La richiesta avanzata ieri dal governo libico di un cessate il fuoco e di una riunione del Consiglio di sicurezza dovrebbe aiutare questo piano. Idee simili, del resto, cominciano a farsi strada anche negli Stati Uniti, dove il discorso di Obama in difesa dell’intervento non ha convinto l’opinione pubblica e il Pentagono preme per un rapido ridimensionamento del ruolo americano.

Washington comincia a prendere in considerazione la possibilità di un conflitto prolungato, con Gheddafi arroccato nella capitale e i ribelli incapaci di dargli la spallata finale, che potrebbe portare a una spaccatura permanente del Paese. Oltre tutto l’Occidente non può ignorare che la Lega araba, che pure aveva dato luce verde alla risoluzione del Cds per la diffusa antipatia verso Gheddafi, comincia a dare segni di inquietudine per la pesantezza dell’intervento militare occidentale.

Altrettanto difficile è il discorso su come reagire alle rivendicazioni nei diversi Paesi. Qui si tratta di bilanciare i proclami a favore dei diritti umani e della democrazia con le esigenze della Realpolitik. Finora l’Occidente ha usato due pesi e due misure. Ha appoggiato la rivolta in Libia, Tunisia ed Egitto, salvo a nutrire già qualche timore sugli ultimi sviluppi politici al Cairo. È incline a sostenere la incipiente rivoluzione in Siria contro un regime alleato con l’Iran, anche se teme che una rivolta della maggioranza sunnita contro gli Alauiti al potere possa gettare il Paese nel caos e coinvolgere anche Libano e Israele. Sarebbe felice se la piazza araba contagiasse anche quella iraniana, ridando slancio a quel movimento di opposizione che l’anno scorso fece tremare gli ayatollah e fu poi soffocato nel sangue. Al contrario, teme che l’effetto domino investa Arabia Saudita, Bahrein, Oman, Emirati arabi uniti, fedeli alleati degli Stati Uniti nel confronto con l’Iran e insostituibili fornitori di petrolio. Nessuno, infatti, si è sognato di protestare quando re Abdullah, senza prevenire gli Stati Uniti, ha inviato duemila uomini nel Bahrein per soffocare la rivolta sciita. Neppure la rivolta contro il corrotto e tirannico presidente yemenita Saleh è vista di buon occhio, per il rischio Al Qaeda.
La rapidità con cui si sviluppano gli eventi e gli spesso contrastanti interessi nazionali rendono ancora più difficili le scelte e impediscono ai Paesi occidentali di concordare posizioni comuni.

Un effetto collaterale della rivolta araba rischia di essere proprio la fine della politica estera e di difesa comune della Ue, prevista dal Trattato di Lisbona ma resa oggi impossibile dalle velleità di grandeur della Francia e dalle pulsioni belliciste della Gran Bretagna.

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