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Dostoevskij nei labirinti della colpa

Dostoevskij nei labirinti della colpa

Laura Novelli

Fa sempre piacere vedere una platea gremita di spettatori di età diversa, se non addirittura diversissima, applaudire unanime la fine di uno spettacolo. Segno che quello spettacolo ha saputo soddisfare le curiosità intellettuali di persone molto distanti tra loro per gusto, formazione, mentalità, esperienza, regalando a ciascuno un messaggio chiaro e importante. Ed è questa, secondo noi, una delle carte vincenti di Delitto e castigo, il lavoro che, in scena all’Argentina con repliche fino a domenica, Glauco Mauri ha tratto dall’omonimo romanzo di Dostoevskij.
Sfida quanto mai difficile, vista la poderosa trama di partenza (vi si narra la vicenda di uno studente universitario che uccide una vecchia usuraia «per rubare» e poi si consegna spontaneamente alla giustizia) e vista la complessa materia filosofica che la innerva (vettore di interrogativi che riguardano il rapporto tra bene e male, colpa e salvezza). Trama e materia filosofica che Mauri (curatore dell’adattamento, regista e interprete insieme con Roberto Sturno) riesce a condensare in due ore di dialoghi e monologhi incalzanti, calati in una scenografia-labirinto attraversata da bei tagli di luce, musica imponente e frasi scritte in sovrimpressione. Un ventricolo della coscienza atto a scandire le varie tappe che Raskolnikov (l’ottimo Sturno) tocca durante il suo viaggio di espiazione, passando dal terrore e la solitudine iniziali («in quale sogno maledetto sto precipitando?», suona la frase di apertura del lavoro) alla vibrante confessione rivolta a Sonja (Silvia Ajello), dal monologo in cui egli stesso si chiede come sia potuto accadere ciò che è accaduto fino alla decisione di costituirsi. Fino, dunque, al confronto diretto con il giudice Porfirij Petrovic (un Mauri assolutamente credibile), figura secondaria che rappresenta in realtà la chiave di volta del romanzo.

Non è un caso che questo allestimento, di rara raffinatezza scenica, punti l’ago della bilancia proprio sul conflitto dialogico e psicologico tra Raskolnikov e Petrovic: «luogo» di tensioni etiche che, dal labirinto delle paure più ancestrali, parlano all'uomo di ogni tempo (e di ogni età).

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