Dov’è il declino? Basta guardarsi attorno

Caro dottor Granzotto, si seguita a parlare del declino dell’Italia, eppure non ho mai visto tanti concittadini affollare località turistiche anche lontanissime, tante belle automobili - con una Fiat che pare sia alle stelle - e tanti telefonini, grandi televisori al plasma e ristoranti pieni come di questi tempi. Se tutto dà l’idea di un buon tenore di vita, di che declino si parla?


Il tenore di vita è, almeno nella sua esteriorità, alto, ma alti sono anche i debiti degli italiani, gentile lettrice. Con l’accesso al credito al consumo - le rate, come si chiamavano ieri - il nuovo cellulare, il televisore al plasma, l’abbonamento alla palestra o il ponte del primo maggio a Sharm el Sheik non se lo nega più nessuno. Naturalmente, poi, all’ultima settimana del mese sono dolori perché tocca onorarle, le rate. Che saranno anche «mini», però sommate l’una all’altra possono facilmente diventare «maxi». In ogni modo, i segni del declino di un Paese non si leggono nella mancata corsa alle spiagge tropicali o all’acquisto degli occhiali da sole «a goccia» come quelli che inforca Sarkozy. Si colgono in un generale lasciar andare, nel mancato ammodernamento - o semplicemente la manutenzione - dell’esistente, nel non tenere il passo coi tempi. Fanno un po’ sorridere gli appelli a incrementare la ricerca (con il conseguente ipocrita piagnisteo sulla «fuga dei cervelli») quando poi ci si rassegna allo scadimento progressivo di quanto c’è, lasciando che il progresso lo renda obsoleto. Non parliamo per carità di patria dell’Alitalia, ma guardi in che stato miserevole sono le nostre ferrovie, con carrozze vecchie e sudice, ritardi ormai da considerarsi cronici, servizio scadentissimo (e prezzi inversamente proporzionali). Mentre tutta l’Europa si è già fornita di una rete ad alta velocità noi stiamo ancora alla Torino-Novara, chilometri quaranta. E, pur consapevoli che ha un senso solo se destinata al trasporto (veloce) dei passeggeri, ci ostiniamo a chiamare Alta capacità quella che è Alta velocità, quasi che servisse a ciò che non può materialmente fare, muovere containers a 300 chilometri all’ora.
Parliamo tanto di informatica, ma disponiamo di una rete di trasmissioni dati pressoché pionieristica: lenta e discontinua, in molte parti d’Italia addirittura inesistente. Pur avendo più telefonini che abitanti, il Paese non è interamente coperto dal segnale e ciò vale anche per Roma, la capitale, dove interi quartieri e perfino molte zone del centro storico non hanno quello che si chiama «campo». Da oltre trent’anni si parla, a vuoto se non proprio a vanvera, di sistemare i 500 chilometri della Salerno-Reggio Calabria, una «autostrada» che sfigurerebbe anche nel basso Sudan ed è dai tempi di Giolitti che ci si propone di raddoppiare le ferrovie ancora oggi, anno del Signore 2008, a binario unico da Napoli e Bari in giù. E l’Acquedotto pugliese? Perde metà della sua portata per falle e prelievi abusivi costringendo intere regioni ai turni per l’acqua, provvedimento giustificabile forse nel primissimo dopoguerra, ma scandaloso oggi.

E il servizio postale che quando va bene consegna la corrispondenza non prima delle nove e mezzo, dieci del mattino? E gli ospedali, con un bagno (e deposito di secchi e spazzoloni) ogni trenta degenti? Si potrebbe continuare per un pezzo, gentile lettrice, ma penso che ci siamo capiti: è in queste cose, in questo stato di abbandono che si ravvisa il declino di un Paese. Affermava l’etologo Desmond Morris che il primo sintomo del collasso di una specie sono gli animali che sporcano la propria tana o il proprio nido. Siamo lì.

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