Draghi: «Aumentano i rischi d’inflazione»

La politica accomodante può incoraggiare comportamenti rischiosi da parte dei mercati

da Roma

Gli effetti dell’attuale choc petrolifero sull’economia sono oggi «molto meno severi» rispetto a trent’anni fa, anche per la politica credibile attuata delle Banche centrali. Tuttavia, per quanto temporaneo, l’aumento dell’inflazione appare oggi «più persistente» di quanto la Bce si attendesse alcuni mesi fa: «Mentre, nei mesi scorsi, l’inflazione di fondo era rimasta contenuta - spiega Mario Draghi, nel corso di un intervento a Dublino - recentemente i rischi sono aumentati: vi sono segni di accelerazione dei costi interni di produzione, e anche le aspettative di inflazione a medio-lungo termine indicano la presenza di tensioni».
Allo stesso tempo, Draghi non sa dire con precisione quanto la crisi attuale durerà. «Ho straordinaria ammirazione per chi afferma che è finita, che peggiorerà o che durerà altri tre anni - commenta - ma la verità è che è molto difficile prevederlo. Le autorità fronteggiano in modo pragmatico i problemi, man mano che si presentano». Per certo, aggiunge, «dalla crisi uscirà in futuro una industria finanziaria diversa». L’opinione di Giulio Tremonti, in proposito, è che «la crisi è ogettivamente molto grave, ma l’Italia ha degli elementi di forza come il settore bancario, più solido degli altri».
È dedicato all’importanza della corretta comunicazione della politica monetaria il discorso del governatore di Bankitalia alla Whitaker Lecture della Banca centrale irlandese. Draghi coglie così l’occasione per spiegare nel dettaglio i motivi che hanno spinto la Bce ad aumentare i tassi d’interesse. «È stato per affrontare l’accresciuto rischio di effetti di second round sulle retribuzioni e sulla fissazione dei prezzi interni, e per riaffermare il proprio impegno a ripristinare la stabilità dei prezzi che il Consiglio direttivo ha deciso di aumentare i tassi al 4,25%».
«La credibilità non può essere data per scontata», osserva Draghi. Una manovra tempestiva, aggiunge, è da preferirsi alle «tardive, violente correzioni» operate in alcuni Paesi decenni addietro. Con tutta probabilità, il riferimento è alla violenta stretta operata negli Usa da Paul Volcker che portò i tassi americani al 13,50% nell’81 per combattere l’inflazione (con successo: i tassi scesero al 3,2% nell’83, ma a caro prezzo per l’economia). Nei giorni immediatamente successivi al rialzo dei tassi del 3 luglio, dice ancora il governatore di Bankitalia, «le aspettative d’inflazione derivate dai mercati finanziari hanno smesso di crescere».
Secondo Draghi, «tassi eccessivamente bassi, e un’eccessiva espansione della liquidità e del credito, possono influenzare la finanza, e incoraggiare un comportamento rischioso da parte degli investitori». Dunque, le banche centrali fanno bene a mantenere una politica monetaria attenta. La crisi di questi mesi ha confermato che «l’enfasi della Bce sugli andamenti della moneta e del credito è più appropriata» di quanto hanno fatto altri (la Fed, evidentemente, ndr). Allo stesso tempo, Draghi comprende come la Riserva federale abbia ridotto i tassi lo scorso anno, quando le evidenze di inflazione erano minori.

In questo quadro, la comunicazione da parte delle autorità monetarie ai mercati assume sempre maggiore importanza. Molto credibili quando informano sui dati economici e sulle prospettive dei tassi d’interesse, le banche centrali sono state però meno ascoltate nel momento in cui segnalavano la possibilità di crisi finanziarie.

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