Le due anime di Al Aqsa adesso combattono per avere uno stipendio

Un gruppo è schierato con Barghouti, l’altro con Fatah. Sono ricercati dagli israeliani, ma si sono votati alle urne. Obiettivo: trovare un lavoro

da Nablus

Il manifesto la dice lunga. Marwan Barghouti campeggia a destra con il megafono in mano e il pugno proteso. Nasser Juma a sinistra, con il sorriso dell’allievo e una chioma rada e brizzolata da George Clooney della West Bank. Tra maestro e allievo la professione di fede. «Solo le mani dei combattenti alzeranno la fiaccola della libertà». Eccoli i combattenti. Son tutti nell’ufficio elettorale oggi tana di vecchi camerati. Bivaccano vociosi e sguaiati attorno all’enorme tavolo, nubi di fumo e profluvi di caffè. Sono gli khattaeb shebabi i ragazzi del Brigate. Il capo ha fatto carriera, loro han riposto i mitra e son diventati comitato elettorale. Meglio qui al caldo, tra un pacco di manifesti e l’altro, che la fuori alla mercè degli israeliani. Nasser Juma li fugge da una vita. «La prima volta era l’82 avevo 15 anni, finii in galera per tre anni e mezzo da allora sono sempre stato latitante o prigioniero». Preferisce non dire di essere uno dei pochi sopravvissuti tra quanti, nel 2000, tennero a battesimo il primo nucleo delle Brigate Al Aqsa. Ma a Nablus lo sanno tutti. Come sanno che il suo nome, inserito da Barghouti ai primi dieci posti della lista nazionale di Fatah, rappresenta i combattenti di Fatah. O almeno i combattenti contrari alla corrotta e screditata «vecchia guardia» di Fatah. «Loro quando Marwan Barghouti venne arrestato tirarono un sospiro di sollievo. Nel 98 m’accusarono di voler far fuori Arafat e mi sbatterono in galera per 18 mesi. Ma ora hanno capito che senza Marwan e senza di noi Fatah scomparirebbe. Per questo si sono rassegnati a lasciarci i primi posti». Nel Nasser pensiero il doppio ruolo di militante armato e candidato dell’ala «riformista» di Fatah non è minimamente in contraddizione. «E perché non dovremmo candidarci? Noi combattevamo e gli altri s’arricchivano, la vecchia guardia rubava, i miei compagni cadevano sotto i colpi israeliani. Ora è il nostro turno».
Per i «giovani leoni» di Fatah i pruriti legalitari del presidente Mahmoud Abbas, la smania di disarmare i gruppi armati sono solo una celia affrettata. «Come fai a disarmare finché gli israeliani scorazzano su e giù per la città. Finché continuano le loro incursioni, come distingui tra chi si arma per difendere i cittadini e chi le usa per creare il caos. Solo dopo il ritiro potremo fare distinzioni... allora sarò il primo a impegnarmi contro i responsabile del disordine e dell’anarchia». In fondo nella galassia frastagliata delle Brigate al Aqsa Nasser Juma e i ragazzi dell’ufficio sono ancora i buoni. Loro dopo il cessate il fuoco dell’anno scorso non hanno più sparato un solo proiettile.
Gli altri, i più irriducibili aspettano in piazza, in un rincorrersi d’emissari accordi al cellulare e incontri mancati. Alla fine un ragazzetto s’infila in macchina e ci guida fino all’hotel Jasmine. «Salite vi aspettano». Difficile non riconoscerli. Siedono allineati a un tavolo della terrazza, la mano sopra al bancone appoggiata al cellulare, quella sotto alla pistola. Ala Sanashreh, 27 anni, maglionaccio lungo e capelli neri imbrattati di gel è uno scugnizzo un po’ stagionato. Sembra un po’ spregiudicato e un po’ arrogante, ma anche tanto innamorato di quella Beretta nera 9 corto che lustra, sfodera e accarezza in continuazione. Dicono sia il capo delle Brigate Martiri Al Aqsa fazione «Aude» ovvero del ritorno. A cosa vogliano tornare nessuno lo sa. Di certo Nasser Abu Aziz, 35 anni, veterano e numero tre del gruppo, non è mai uscito dai servizi di sicurezza di Fatah. Ha il dito ancora imbrattato d’inchiostro come tutti gli uomini sul libro paga delle milizie dell’Anp chiamati a votare con tre giorni d’anticipo. Fino a qualche settimana fa questo gruppuscolo di ricercati vicini alla vecchia guardia di Fatah erano fra i più chiassosi oppositori del voto, «ma non potevamo far vincere Hamas per questo abbiamo cambiato idea». Abu Aziz non nega di essere sul libro paga dell’Anp né di militare in uno dei gruppi che il presidente Abu Mazen sogna di disarmare. «Mi pagano, ma io non devo né presentarmi, né obbedire ai loro ordini, perché dovrei. Sono uno che ha combattuto tutta la vita, se non riescono a garantirmi la sicurezza devono fornirmi i mezzi per difendermi da solo. Fino a quando Abu Mazen non saprà difenderci noi non abbasseremo la guardia».
Le Brigate di Nasser Juma e quelle del «ritorno» comandate da Ala Sanashre e Abu Aziz sono, qui a Nablus, le due facce dello stesso fenomeno.

Due manipoli di ex combattenti schieratisi gli uni con i giovani leoni di Barghouti e gli altri con la vecchia guardia di Fatah. Per entrambi il problema elettorale è lo stesso, trovare qualcuno disposto a mantenerli in vita e a pagargli uno stipendio. Almeno fino a quando Israele smetterà di cercarli.

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