Due secoli di Fernet diventeranno un museo

C’è Villa Branca, agriturismo e vino, in Toscana, c’è la Torre Branca, Milano e nuvole, al Parco Sempione e c’è, in pratica ovunque nel mondo, il Fernet Branca che tutti conoscono anche se ben pochi si immaginano dove viene prodotto: in via Resegone, a nemmeno cinque chilometri da piazza Duomo. Il Fernet è un prodotto ad assoluto tasso di milanesità, come l’ossobuco col risotto giallo e ben più del panettone, ma in fondo se ne sa ben poco perché la famiglia Branca - e di conseguenza l’azienda Branca - si è sempre tenuta lontana dai riflettori, preferendo “parlare” attraverso i suoi prodotti, senza effetti speciali.
Non che ora, accanto a viale Jenner, sia Hollywood (per fortuna), solo che la ristrutturazione di un’ala dell’isolato ha spinto i titolari a vedere certi aspetti in un’altra ottica. Tutto sembra nascere da una scoperta fatta nel 2001 del tutto casualmente. L’amaro, con o senza menta, si chiama Fernet perché nella prima parte dell’Ottocento Bernardino Branca, speziale, incontrò un medico svedese che di cognome faceva Fernet e con il quale mise a fuoco la ricetta di un amaro tanto imitata (male) quanto tuttora segreta, al punto che fuori dalla famiglia la conoscono due persone appena.
Il fatto che esistesse un signor Fernet, sulla falsariga di Lazlo Biro padre della biro, ha ridotto a fantasia quella che era sempre parsa la sola spiegazione plausibile, fernet da ferro netto. Succede infatti che, nell’estrazione ad altissima temperatura dell’aloe, si sia sempre usato un ferro rovente che deve uscire dal pentolone netto, nel senso di pulito. Bella immagine, ma fasulla. Pazienza.
L’aloe è solo uno dei 27 ingredienti-base (29 considerando che due sono lavorati in due diverse maniere) che chi visita la fabbrica può toccare, sbriciolare, annusare. Per inizio autunno, quella che doveva essere una sorta di esposizione privata diventerà un museo aperto al pubblico, un viaggio in oltre 160 anni di storia visto che la ditta venne fondata nel 1845 nell’area delle ex Varesine, con botti e bottiglie trasferite nella nuova sede nel 1910, a lungo quasi campagna. Lì oggi si producono anche gli aperitivi della Carpano, ex vanto di Torino, e il caffè Borghetti, e lì le materie prime sono disposte in bella vista anche se c’è il trucco: ne hanno aggiunte una dozzina per confondere, nel dubbio che a qualcuno vengano strane idee.
Purtroppo per i Branca, il Fernet è imitatissimo da sempre, da quando ancora non si parlava di agro-pirateria. Con una certa dose di ironia, una sezione raccoglie tutte le copie accanto a una bottiglia rimasta intatta sotto il bombardamento della Scala. Nulla di assaggiabile, ma di certo nulla di buono. Il segreto del Fernet Branca (a proprosito: 40°, mica una barzelletta alcolica) è l’armonia di insieme, un equilibrio che poggia su una spezia che Milano ha adottato e issato sul pennone più alto: lo zafferano. Ne consumano quintali ogni anno. Tutte le altre, ginepro piuttosto che mirra, vi ruotano attorno, tra l’altro anche nell’espositore.
La cosa che impressiona di più è la vastità dello stabilimento: 22mila metri quadri. L’isolato tra le vie Resegone, Lancetti, Jenner e Porro non accoglie null’altro. Quando si passa accanto a uno degli sfiatatoi sale un profumo di Fernet, inconfondibile e in fondo pure elegante nella sua complessità. Il museo al primo piano, la produzione in cantina. Un tempo anche le divise venivano cucite in sede così come il Fernet prodotto pure a New York e in Argentina, in Svizzera (Chiasso) e in Germania.

Ora solo nel Paese sud-americano dove è popolarissimo aggiunto alla Coca-Cola, il Fernandito. Particolare curioso: per il mercato tedesco la ricetta varia e ai tedeschi in vacanza da noi rimangono perplessi quando bevono l’originale.

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