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E adesso Berlusconi punti al Quirinale

Mille giorni per cambiare l’Italia. Comincia la mitica stagione delle riforme e tutti dicono che ora il governo Berlusconi non ha più alibi, deve fare sul serio le grandi riforme. Sacrosanto, però lasciatemi vedere l’altra faccia della medaglia. Che faranno gli altri che non sono al governo o sono all’opposizione, dico Bersani e le sinistre, Di Pietro, Casini e Fini? L’ipotesi più probabile è che remino contro perché non vogliono dare a Berlusconi e Bossi l’incasso delle riforme, temono che si rafforzi il loro consenso popolare. L’ipotesi più probabile è che creino difficoltà, ostacoli. È l’ipotesi più probabile, ma anche la più stupida. E lo dico non mettendomi nei panni di Berlusconi e non pensando solo all’Italia e agli italiani, che pure dovrebbe essere il prioritario interesse della politica. Lo dico pensando a loro stessi, nell’interesse della sinistra, del centro, di Fini. Dunque, se Berlusconi realizza da solo, in compagnia di Bossi, una parte delle riforme e non realizza invece le riforme istituzionali che necessitano di una maggioranza larga, potrà dire agli italiani che tutto ciò che era nella sua facoltà di fare ha fatto, ed è stato impedito sul resto da chi ha remato contro. Insomma, uscirebbe vincitore, gli italiani capirebbero. Se invece vi concorreranno fattivamente anche gli altri, il fatturato politico non andrà esclusivamente a lui e al suo governo. Se fossi in loro, io giocherei la seconda scommessa. Anche perché finora hanno giocato la prima, di remare contro, ed è andata rovinosamente male.
E allora vengo al nodo cruciale, la riforma presidenziale. Per Casini e soprattutto per Fini sarebbe un problema dichiararsi contrari, avendo espresso per vari anni una posizione presidenzialista; ma anche la sinistra sbaglierebbe a chiamarsi fuori e a dirsi contraria a una riforma che piace alla gran maggioranza degli italiani. Allora dico che in un Paese serio e intelligente, il compromesso potrebbe essere il seguente: via libera al termine dell’esperienza di governo all’ascesa di Berlusconi al Quirinale, e contestualmente condurre in porto la riforma presidenziale. Ma non nel senso americano, come dice il Pdl, e nemmeno francese, come ora farfuglia Fini, dopo aver segato durante le elezioni il presidenzialismo su cui punta da una vita lui col suo partito di provenienza. Ma puntando sul premierato. Do you remember Mariotto Segni, e la sua campagna «un Sindaco per l’Italia»? Bene, proprio quello, ovvero il presidente del Consiglio e non il capo dello Stato, eletto direttamente dal popolo. Questa soluzione avrebbe tre vantaggi: primo, porta a compimento l’elezione diretta del premier che è già implicita nel sistema odierno, perché è indicato il nome del candidato premier accanto alle liste. Dunque una riforma meno traumatica e più accettabile da chi proviene da tradizioni non presidenzialiste. Secondo, garantisce la stabilità e la forza dei governi perché dura, salvo catastrofi, un’intera legislatura e dunque permette di decidere davvero e di affermare sul serio la sovranità popolare. Terzo, mantiene pur sempre un contrappeso autorevole, con la presenza di un presidente della Repubblica, garante della Repubblica stessa e delle sue leggi, eletto dal Parlamento e magari dalle élite.
Politicamente il patto comporterebbe questa sequenza: tre anni di governo Berlusconi senza pregiudiziali, guerre, boicottaggi; poi la sua elezione al Quirinale. Ma contestualmente parte il premierato. Chi uscirà dalle prossime elezioni, avrà il mandato pieno e tosto per governare, mentre Berlusconi parlerà dal Colle. Mi pare un buon compromesso, magari alla luce del sole. Che converrebbe a tutti, mi pare. A Berlusconi che potrebbe in questi mille giorni lasciare segni storici sull’assetto del nostro Paese e poi vivere l’apoteosi del Quirinale. A Fini che assumerebbe un ruolo decisivo di mediatore istituzionale di questo patto tra maggioranza e opposizione, e in cambio di lealtà verso il governo Berlusconi, giocherebbe a pieno titolo la partita del premierato, vedendosela con gli altri concorrenti interni al centro-destra - a cominciare da Tremonti. Alla sinistra che cambierebbe finalmente musica, uscirebbe dal complesso di Berlusconi ma anche di Di Pietro e uscirebbe dalla sindrome della paralisi e dell’ombelico, come dice Bersani, proiettando la sua partita sul dopo Berlusconi. E avendo intanto tre anni pieni di laboratorio per ricaricarsi, per selezionare una squadra e maturare un programma di governo. E in fondo non danneggerebbe neanche il centro, Casini e i terzisti, che potrebbero giocare dopo una bella partita con Berlusconi extra partes al Quirinale; mentre darebbe a Bossi e alla Lega un gran ritorno di consensi per aver firmato un’esperienza di governo destinata a lasciar traccia nel Paese. A ben vedere, in un’intesa di questo genere ci rimetterebbe solo Di Pietro e coloro i quali hanno nell’antiberlusconismo la loro ragione di vita.
Capisco che per una scelta del genere ognuno debba rinunciare a qualcosa: Berlusconi rinuncia a un presidenzialismo compiuto, che poi coincida con la sua leadership. Fini rinuncia a fare il leader morale dell’opposizione in questi tre anni, e Casini deve rimandare il suo gioco al dopo-governo Berlusconi. E la sinistra accetta la svolta del premierato, accontentandosi di scongiurare il presidenzialismo pieno e la sua identificazione in Berlusconi; ma così si sgancia dalla subalternità a Di Pietro, che non deve inseguire perché non ha scadenze elettorali ravvicinate e gioca una partita che la farebbe crescere sul piano dell’affidabilità politica e istituzionale. Intanto il governo avrebbe un clima favorevole per poter intraprendere le riforme che più interessano gli italiani, dal fisco alla sanità, dal lavoro al rilancio del Paese.


Vi sembra un’ipotesi sensata? A me sembra la quadratura del cerchio nell’interesse del Paese, anche se ciascuno deve smussare gli angoli. E non vedo soluzioni migliori all’orizzonte. Io ci scommetterei. Seconda domanda: vi sembra un’ipotesi praticabile? Beh, qui conoscendo i miei polli, non ci scommetterei...

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