Franco Ordine
nostro inviato a Milanello
Carlo Ancelotti non è Fabio Capello. Di qui lassunto successivo su cui si discute da qualche anno ormai: il Milan non è la Juve. Due stili diversi, due identità marcate, due modi di intendere il calcio, uno trasferito allopposto dellaltro. Carlo Ancelotti non è Fabio Capello in tutti i sensi, vien da aggiungere per segnalare le mancate analogie: cominciano dalla panchina e proseguono dietro i microfoni, sconfinando nei tratti personali. Uno, Carletto, lucido e garbato, descrive in modo attendibile il distacco di dieci punti scavato dal campionato («si spiega molto semplicemente con una serie di successi, a Firenze e contro la Samp, a Milano sullInter, ottenuti grazie ad una volontà di ferro»), laltro non se ne cura nemmeno. Uno, leale e dotato di fair-play, si lascia scivolare addosso linterrogativo sulla fortuna sfacciata della Juve nella qualificazione di Champions league («meritava comunque di passare»), laltro rinfaccia al Milan il gollonzo di Inzaghi e dimentica quel pronostico mancato («passa il Bayern» dettato ai giornali tedeschi). Uno, realista quanto basta, sostiene che «lo scudetto è un argomento chiuso, cè una fiammella piccola piccola da alimentare in caso di vittoria, il pareggio non serve a niente», laltro cestina le critiche sulla ridotta salute fisica della Juve e chiama il Milan «a fare la partita, noi abbiamo il match-ball per chiudere la corsa».
A volte, mai in pubblico, qualcuno del pianeta Milan ha rimpianto la feroce gestione di Capello, mai il suo calcio sparagnino (specie in Europa). Perciò forse Carlo Ancelotti nella sera in cui può salutare il secondo scudetto consecutivo vinto dal collezionista di Pieris, non rinuncia alla sua diversità. «Non possiamo andare a fare la lotta con la Juve, dobbiamo impedire di mandarla in partita e provare a comandare il gioco» insiste Ancelotti e magari borbotta, dietro le quinte, per le notizie scoraggianti che insistono sulle condizioni del tappeto torinese. Devessere per questo motivo che Carletto coglie al volo uno dei complimenti recenti di Adriano Galliani («vorrei che restasse con noi per ventanni») per soffiare nel microfono un «sono pronto». E devessere magari per marcare ancora di più, diciamo a fuoco, la diversità che sempre Ancelotti interviene, documentato, per far sapere che «lo scarso feeling tra Capello e il popolo bianconero è dovuto esclusivamente alla questione Del Piero». Non è un adorabile sognatore, Carletto persino quando gli propongono leventualità di una finale-rivincita contro la Juve, a Parigi. «Magari» chiosa e sembra di riascoltare il suo disincanto prima di volare a Istanbul, col Fenerbahce.
Carlo Ancelotti non è Fabio Capello e il Milan non è la Juve ma servirebbe capirlo molto nellunica circostanza a disposizione, prima di richiudere la questione tricolore dentro lo scrigno juventino. «Se Juve e Milan vincono quasi tutto da 10-15 anni, i meriti sono due: delle società organizzate e dei mezzi economici» racconta Carletto che non è il tipo da gonfiare il petto per il secondo posto. Alla fine, anzi, si capisce perchè non cè traccia di veleni nelle ore che portano al duello semifinale. «Cè rispetto reciproco» sintetizza lallievo di Arrigo e probabilmente si riferisce ai rapporti che intercorrono tra Giraudo e Galliani, tra Moggi e Braida. Prima di sbarcare a Torino, affiora lultima differenza, tra Ancelotti e Capello. Uno tiene dentro, in campo, Inzaghi, leversore del Bayern, laltro dirotta Del Piero in panchina. Chissà chi avrà ragione.
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