L’opposizione con il cappello in mano. Le speranze del Pd non arrivano più dalla politica. È un partito che ormai non riesce a ragionare sulle idee, ma affida il suo destino, la sua azione, i sogni di resurrezione alle mosse di quello che fino a un anno fa era il numero due di Berlusconi.
Sono strani giorni. Berlusconi fa i conti con la sua vita privata. Le escort ballano il valzer su giornali e televisioni e ogni tanto spunta una ragazza in vena di confessioni: «Io c’ero». In cambio le procure offrono un salvacondotto e una sorta di amnistia. Basta rivelare i segreti del Cav. Il governo si è arroccato. È sotto assedio. Sulla scacchiera i teorici del ribaltone studiano la mossa finale per scardinare le difese. Come fare a trasformare lo scacco al re in scacco matto? Il ruolo del Pd anche questa volta sembra passivo. L’unica risorsa che riescono a mettere in campo è chiedere l’elemosina a Gianfranco Fini. Lo supplicano di agire, di fare in fretta, di essere coerente, di aiutarli finalmente a disinnescare l’anomalia Berlusconi.
Solo che a Fini trema la mano. Temporeggia. Aspetta che tutte le variabili siano favorevoli, soprattutto ha paura che il suo antico alleato evochi in campagna elettorale un’ultima magia. Aspetta che Napolitano gli dica: non preoccuparti, non si va al voto. Fini trama. Disegna scenari. Pensa a un governo per l’emergenza economica, un esecutivo di lungo corso, costruito con il voto di tutti gli antiberlusconiani, perfino quelli ancora nascosti nel Pdl. Un governo senza elezioni, che trova la sua forza non nella politica, ma in un patto lobbistico tra le parti sociali: confindustria e sindacati. Fini a Perugia dovrebbe far vedere le carte che ha in mano. Questo perlomeno è quello che lascia capire. Solo che dice e non dice. Ambiguo. E c’è chi sospetta che anche lì, quando brinderà alla nascita del nuovo partito, non avrà il coraggio di ribaltare il tavolo. Lo sospetta anche Bersani. Implora. Prega. Chiede di fare in fretta. Sbotta. Minaccia: «Mi dicono che Fini ora avrebbe deciso, però io aspetterò fino a domenica, non oltre. Fino al suo discorso a Perugia».
Gianfranco senza dubbio si è rifatto una verginità. Quello che però fa impressione è vedere il partito principe della sinistra italiana ridotto a fare politica per conto terzi. L’altra sera in uno dei salotti radical-televisivi la Dandini, Vergassola e il direttore della Stampa Mario Calabresi sottolineavano, con ironia, la triste condizione del Pd appeso a un Fini. È l’estremo fallimento di una classe dirigente che colleziona fallimenti senza mai pagare dazio. Il sospetto è che ai leader del Pd non interessa il futuro del partito, ma la conservazione e la gestione del loro potere personale. È per questo che negli anni cambiano le sigle, Pds, Ds, Ulivo, Pd, ma gli uomini restano sempre gli stessi. Dopo ogni sconfitta si ritrovano a piangere gli stessi dirigenti, stantii, scaduti, in stato di decomposizione. Tutti questi anni sono serviti solo a una cosa: svuotare di contenuti e identità la loro vecchia casa. Ma qualcuno, sul serio, si ricorda una idea forte dei vari Pds, Ds, Ulivo, Pd? Una battaglia, un colpo d’ala, un promessa, un sogno, una riforma, un’ideale? Nulla. Solo Padoa Schioppa si è inventato qualcosa: pagare le tasse è bello e bamboccioni. Ma è difficile innamorarsi di Tps. Troppo facile ora per Matteo Renzi e la sua banda gridare: rottamiamoli. Questo vuoto di idee e ideali, questa mancanza di futuro, questo rimestare sempre nel passato, reazionari e nostalgici, si è riempito solo di antiberlusconismo. Vuoto. Solo vuoto.
È questo vuoto che ha permesso a Fini e a Bersani, D’Alema, Veltroni, Bindi, Franceschini e tutti gli altri di dialogare, di ritrovarsi. Vuoto chiama vuoto. Non è un connubio. Non è neppure trasformismo. È rendere la politica, parafrasando Hegel, una notte scura in cui tutte le vacche sono nere. A questo punto non si capisce lo stupore di Bersani davanti alla scelta di suonare a Sanremo Bella Ciao e Giovinezza per i 150 anni dell’unità d’Italia: «Ma siamo sicuri? Non ci credo. Non è possibile. Se fosse vero dovrebbero vedersela con noi». Sono due frammenti dell’identità italiana.
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