E la Cassazione si spaccò sull’atomo

RomaQuel primo giugno, nell’aula Giallombardo al secondo piano del Palazzaccio, c’era una folla mai vista. L’Ufficio centrale per il referendum della Cassazione, che doveva decidere sull’ammissibilità del quesito sul nucleare, non ha un numero fisso di componenti. Dovevano partecipare almeno 16 giudici, ma si sono presentati in 28 dei 36 aventi diritto.
«Neppure quando decidemmo sulla riforma costituzionale per il federalismo del 2001 eravamo in tanti», ricorda uno dei partecipanti alla riunione. Ma questo referendum, così carico di significati politici, per le toghe più «impegnate» evidentemente ha un peso particolare.
Fatto sta che in quella discussione se ne sono viste delle belle, con una spaccatura profonda nel collegio e, alla fine, una votazione con 18 sì e 10 no. La maggioranza ha dato il via libera al referendum, ma non senza travaglio.
Raccontano che sia il presidente dell’Ufficio, Antonio Elefante, che il relatore Antonio Agrò fossero assolutamente contrari all’ammissibilità del quesito referendario, modificato dopo la moratoria del governo sulle centrali nucleari nel decreto Omnibus, poi convertito in legge. Infatti, l’estensore della motivazione non è stato il relatore come d’abitudine, ma un altro componente del collegio: Gaetanino Zecca.
Il dissenso dei 10 era così convinto che, addirittura, sembra che nella seduta qualcuno abbia chiesto la «busta». In gergo indica un verbale segreto e sigillato che registra chi ha votato a favore e chi contro la decisione presa a maggioranza.
Una forma di dissenting opinion, che nei sistemi anglosassoni indica il rifiuto di aderire ad un atto formatosi per volontà altrui. Vi si ricorre anche in sentenze internazionali e più volte se n’è parlato per la Corte costituzionale, ma in Italia la «busta» è diventata d’attualità dopo la legge dell’88 sulla responsabilità civile dei magistrati. Come difesa, per il giudice dissenziente, dall’eventuale causa. Un plico da aprire, appunto, solo in questo caso. È una possibilità rarissima e per arrivare ad invocarla ci devono essere motivi pesanti.
In Cassazione una mediazione ha poi evitato che si arrivasse a tanto, ma una parvenza di dissenting opinion risulta comunque sia dal comunicato ufficiale che parla di decisione «a maggioranza», sia dal fatto che il relatore si stato in tale contrasto con la maggioranza dal sottrarsi alla redazione della sentenza. Non è così frequente, perché abbastanza spesso il relatore, anche se non condivide la tesi predominante, accetta di scrivere la motivazione.
Questo segnale, letto insieme alle altre indiscrezioni che vengono dalla Suprema Corte, parla di una scelta fortemente polemica. «Succede quando un magistrato - spiega un giudice di Cassazione - non vuole assumersi la paternità di un certo provvedimento».
Le due tesi che si fronteggiavano, in quella seduta al Palazzo di giustizia, erano quella che considerava la persistenza dei due commi superstiti dell’articolo del decreto Omnibus come la porta aperta, tra un anno, alla possibilità di una politica energetica che non escludesse il nucleare e quella che, invece, riteneva si trattasse di un semplice annuncio, non vincolante e senza peso sull’effetto della moratoria sulla costruzione delle centrali già decisa dal governo.
I 18 sì hanno portato a riscrivere il quesito, che chiede al cittadino se vuole abrogare parti della legge intitolata «Abrogazione delle nuove norme che consentono la produzione di energia nucleare». Ma se due negazioni affermano, non sarà che due abrogazioni hanno lo stesso effetto?
Secondo alcuni giuristi, infatti, paradossalmente si otterrebbe un risultato del tutto opposto a quello voluto dagli antinuclearisti.
In sostanza, cadrebbero proprio i paletti messi dalla legge.

Ci sarebbe l’abrogazione dell’unica norma che, attualmente, vieta la realizzazione di impianti nucleari, in assenza delle «ulteriori evidenze scientifiche» sulla sicurezza ritenute necessarie dal governo. E sarebbe cancellata anche l’altra norma, che lega una nuova scelta energetica alla «sostenibilità ambientale». Sarebbe un bel pasticcio, insomma.

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