E per fermare il potere di Pechino la Casa Bianca tratta con Teheran

La solita sceneggiata iraniana o, più probabilmente, l’indizio concreto di una svolta, negoziata in gran segreto con gli Stati Uniti nel quadro della nuova grande sfida strategica: quella che oppone Washington a Pechino.
I fatti, innanzitutto. L’altra sera il presidente Mahmoud Ahmadinejad ha annunciato, in un’intervista tv di essere pronto a far arricchire all’estero gran parte dell’uranio prodotto in Iran, come proposto dalle Nazioni Unite. Non è la prima volta che Teheran si dice pronta a concessioni, che dopo un po’ ritratta. È possibile, data l’imprevedibilità del regime iraniano, che finisca così anche questa volta; ma un’analisi accurata della situazione avvalora l’ipotesi di una svolta, considerando innanzitutto un elemento che la stampa internazionale non ha colto. La coscienza pubblica è ferma alle consuete schermaglie verbali e diplomatiche tra i due Paesi. In realtà da settimane gli emissari americani stanno trattando nell’assoluto riserbo con quelli iraniani, come ha rivelato il sito Politico. La trattativa verte sul nucleare, ma in realtà ha ambizioni più ampie ed è ispirata alla lettera che Barack Obama inviò alla Guida Suprema Ali Khamenei pochi giorni dopo il suo insediamento, nella quale offriva trattative senza condizioni su tutto, allo scopo di aprire una nuova era nelle relazioni tra i due Paesi. La rivolta degli studenti iraniani ha bloccato per molto mesi il dialogo, imbarazzando la Casa Bianca. Ahmadinejad era convinto che la ribellione fosse stata preparata dalla Cia. E Washington ha dovuto faticare non poco per dimostrare la propria estraneità. Se ci fossero stati i servizi segreti americani dietro gli studenti, la protesta non si sarebbe spenta rapidamente, ma avrebbe assunto un peso politico che non è mai riuscita ad avere. L’incidente che avrebbe potuto affossare il dialogo tra i due Paesi è diventato il perno sul quale costruire un nuovo rapporto. Avendo avuto la prova che Washington non vuole rovesciare il regime fondamentalista sciita, Khamenei ha dato il via libera al negoziato.
Ed è in questo contesto che è maturata l’apertura di Ahmadinejad sull’arricchimento dell’uranio, accolta positivamente da Washington. Il Dipartimento di Stato inizialmente l’ha respinta, ma dopo pochi minuti la Casa Bianca ha corretto il tiro, dicendosi «pronta ad ascoltare la nuova proposta», ed evitando di alzare la voce sul test missilistico avvenuto ieri. Nessuno può prevedere fino a che punto si spingeranno Iran e Stati Uniti, ma non è difficile capire le ragioni della svolta americana. I motivi di fondo dell’ostilità verso Teheran, a cominciare dalla preoccupazione per la sorte d’Israele, sono immutati, ma diventano secondari in un contesto più ampio: quello della grande guerra strategica con la Cina. Che c’entra Teheran con Pechino? C’entra, eccome. Perché l’Iran è uno dei suoi tre grandi fornitori di gas e petrolio nell’ambito di una collaborazione che sembrava destinata a intensificarsi. Non è un caso che Pechino abbia impedito l’adozione di nuove sanzioni da parte dell’Onu: proteggeva il suo fornitore energetico.
Washington mira a strappare Teheran alla sfera di influenza cinese, mettendo sul piatto un accordo ben più allettante dei milioni di remimbi promessi da Pechino: l’accesso al mercato mondiale e la revoca di tutte le restrizioni internazionali, che hanno portato l’economia iraniana al limite dell’asfissia. La rivolta degli studenti è il segnale di un malcontento profondo, che non potrà essere represso in eterno.

Khamenei, Ahmadinejad e i loro consiglieri sono consapevoli che per restare al potere devono dare respiro alla popolazione, composta per lo più da giovani. E considerano la soluzione americana: permetterebbe all’Iran di rimanere una Repubblica islamica, agganciata però al grande carro dell’economia mondiale. Un piano che irrita la Cina.

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