E le figlie di papà? Un partito votato alla vendetta

La madre di tutte le figlie di papà, Svetlana Stalin, ha appena compiuto 80 anni, vive in una casa di riposo nel Wisconsin, e di quella sua fuga dall’Unione Sovietica ormai ricorda poco persino lei. Ma papà resta papà, e guai a chi lo tocca. Le figlie sono fatte così. Accettano senza fare una piega che le colpe dei padri ricadano su di loro, ostaggio di un nome che dà luce a vite che altrimenti resterebbero nell’ombra. Figlie di squali che, perso il papà, diventano quasi sempre pesci fuor d’acqua. Raghd Hussein, figlia maggiore di Saddam, è ospite della famiglia reale giordana e tale resterà a tempo indeterminato. È la regista della difesa legale del padre, sotto processo per crimini di guerra e genocidio, ma per il governo iracheno, che ne ha appena chiesto l’estradizione, Raghd «finanzia il terrorismo sfruttando i capitali rubati al nostro popolo». Bandita. Come Lucia Pinochet, 64 anni, figlia maggiore di Augusto. Lei è rimasta accanto a papà, ma solo perché glielo ha imposto la legge cilena. Qualche mese fa se l’era svignata negli Stati Uniti, inseguita da un mandato di cattura per evasione fiscale. È tornata solo perché gli Usa hanno respinto la sua richiesta di asilo. Pare che papà non l’abbia presa bene.
Anche Marija Milosevic è da tempo un fascicolo noto sul tavolo del ministero degli Interni serbo, e dall’inizio di giugno è braccata da un ordine di cattura. Motivo: per la decima volta non si è presentata al tribunale di Belgrado per rispondere dell’imputazione di «procurato pericolo pubblico». Era stata condannata a otto mesi con la condizionale: aveva sparato per difendere il padre la notte in cui Slobo negoziò la resa. Non salvò né lui né se stessa.
Ma non tutte le bambine di casa finiscono così male. Sar Patchata studia amministrazione aziendale alla Pannasastra, l’università privata della capitale, la più costosa della Cambogia. È una ragazza timida, ubbidiente, cerca sempre con gli occhi qualcuno che ricambi i suoi sorrisi. Divide un appartamento con cinque compagne e arriva tutte le mattine all’università in motorino. Pochi sanno chi è, anche se è il ritratto del papà, stesso mento schiacciato, stessi zigomi piatti. È l’unica figlia di Pol Pot, tutto quel che rimane di lui, a parte le ossa di un milione e 700mila persone, sterminate dai khmer rossi del macellaio cambogiano. Di papà sa poco o nulla, visto che il suo nome maledetto è stato cancellato persino dai libri di scuola. Tep Kunnalle, il segretario del padre che ha sposato la mamma, le ha solo raccontato che in fondo «era una brava persona». Perché dire la verità a volte vuol dire distruggere una vita.
Alina Fernandez ha cinquant’anni, vive in Florida e conduce uno dei programmi radio più ascoltati della notte, Simplemente Alina. È una donna libera, ma con un cognome che la tiene prigioniera. Castro, suo padre. «Ma da tanti anni non mi sento più figlia sua: mi fa solo ribrezzo e pietà». Cresciuta con la mamma, Natalia Revuelta, è fuggita da Cuba quindici anni fa con un passaporto falso. Senza pentimenti. «A Cuba papà era come Dio. Era onnipresente, se non stava a casa con noi lo vedevamo in tv». Ora è la sua nemica giurata. Simplemente Alina è diventata la voce dei dissidenti cubani, e gira il mondo per denunciare il regime. Cede solo un attimo alle sue memorie di bambina: «Me lo ricordo come un uomo timido e dolce dalla grande barba». Ma è solo un attimo: «Niente lo salverà dal male che ha fatto a noi cubani».
L’altra faccia del diavolo ha il sorriso tenero e gli occhialini da liceale di Keiko Sofía, 31 anni, figlia di Alberto Fujimori, ex padre-padrone del Perù, esule in Giappone. Mai farsi ingannare dalle apparenze. Keiko è una dura. È stata la first lady di papà durante il suo governo, anche se ha sposato Mark Villeneuve, un americano, e col nome del padre si è presentata alle elezioni. Eletta in Parlamento col massimo dei voti. Ha spiegato: «Papà è stato danneggiato da accuse false: ma adesso sarò io a spalancargli le porte del suo Paese». C’è solo un conto in sospeso.

Quello depositato alla Citibank di New York e su cui indaga la Procura peruviana, che ha chiesto invano l’annullamento del segreto bancario per scoprire l’origine di quella fortuna. Soldi versati da Alberto e presi chissà dove. Per lei papà l’ha pagata cara. Ma chi decide quanto vale un amore?

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