E alla fine Mick Jagger «il fighetto» si rivela il vero duro degli Stones

Siccome nel loro piccolo anche i Mick Jagger si incazzano, ecco qua che finalmente è successo: e la più famosa rockstar del mondo si gode la rivincita. Non è più lui, se mai lo è stato, il numero due dei Rolling Stones. No. Keith Richards? Bravo, certo, fenomenale anche, ma è Mick quello con la marcia in più. Fine del declassamento. E mica solo perché oggi tutto il mondo canticchia il (brutto) pezzo dei Maroon 5 con Christina Aguilera che si intitola proprio Moves like Jagger e lo esalta come fosse un dio o poco ci manca. O perché il gruppone a tempo perso che ha messo in piedi, i SuperHeavy con Dave Stewart, Joss Stone (non Stones...), il figlio di Bob Marley Damian e il due volte premio Oscar A.R. Rahman, ha fatto un bel disco, dodici canzoni tutte con il loro perché. Qualcuna persino memorabile come I can’t take it no more o World keeps turning. E ciascuna così inattesa da far scrivere allo snobbissimo Rolling Stone americano che «è la cosa più selvaggia che lui abbia fatto fuori dalla sua band».
A 68 anni, per capirci.
Quasi quasi, che ne dite, è lui il vero asso dei Rolling Stones, l’elisir di lunga vita del gruppo più lungo della storia. Dal 1962 Keith Richards non si è spostato di un millimetro a parte diventare uno scimmione con l’artrite (Elton John dixit). È rimasto insomma sempre quella roba là, il rock come Chuck Berry comanda. Ce ne fossero, per carità. Ma se gli Stones non sono diventati cariatidi completamente fuori dal tempo il merito non è certo suo. Il curioso e l’entusiasta, oltre che il manager con il sale in zucca (lo sapete che discute ancora i contratti della band con gli avvocati e ha una lucidità da far paura?) è sir Michael Philip Jagger, patrimonio personale stimato in 450 milioni di dollari, ex produttore di Peter Tosh, sempre avido di novità e autentico periscopio dei Rolling Stones altrimenti destinati ad affondare nelle profondità della nostalgia. Per quarant’anni, diciamo dopo il sangue di Altamont e la fine delle sue esternazioni radical, è stato considerato soltanto il numero due, il paulmccartney dei Rolling Stones al cospetto del johnlennon Keith Richards «uomo del popolo», il borghese pazzo per il glamour e le donne, il rocker di sbieco con il pedigree della London School of Economics e la passione per l’aristocrazia, l’ex tossico ora salutista che gli interessa più tutelare il girovita che la voce.
Bye bye.
In realtà è quello che si è messo in gioco più spesso e non sempre con grandi risultati (Some girls è opera sua e fu un trionfo, Emotional rescue invece mamma mia), ha scritto anche riff memorabili (Brown sugar da Sticky fingers del 1971) e, se non si fosse rimboccato le maniche più di tutti per mettere in sesto le registrazioni, l’album Exile on main street sarebbe rimasto solo un esaltante ma dispersivo minestrone di idee invece di trasformarsi in uno dei più bei dischi di sempre. In poche parole, tra le meteoriti impazzite della band, lui ha conservato la rotta. E però, passo dopo passo, è sempre stato considerato il gregario creativo. Figurarsi dopo che il furbetto Keith Richards, nella sua mastodontica e vendutissima autobiografia Life, non solo si è preso un bel po’ di meriti che forse non ha, ma lo ha pure spernacchiato ridacchiando sulle sue (presunte) ridotte dimensioni virili.
Apriti cielo. Forse, chissà, Mick Jagger gli risponde nel disco dei Superheavy con il verso «I can’t fake it no more» (non sopporto più le balle) da I can’t take it no more. E senz’altro a quattr’occhi se ne saranno dette di ogni colore. Però il nuovo Mick Jagger è più tosto di sempre, mica il solito democristiano che abbozza. L’altro giorno ha detto che non ci pensa proprio a organizzare un tour mondiale per il cinquantennio della band e che, se suonassero una serata celebrativa al riesumato Marquee Club di Londra, dove debuttarono nel luglio del 1962, Keith Richards non sarà invitato. La rivincita. Alla fine a dargli una mano, al Mick Jagger che salda i conti, è anche il libro di Mark Spitz, Rebel, rockstar, rambler, rogue, appena pubblicato negli States, una biografia controcorrente che rimette i puntini sulle i a quelli che per vent’anni sono stati i Glimmer Twins sbilanciati verso Richards.

E un po’ come accade ai Beatles, dove McCartney ha atteso decenni prima di essere riconosciuto come la vera anima, Mark Spitz dimostra che, suvvia, per capire come mai gli Stones riempiono ancora oggi gli stadi e i telegiornali basta solo guardare Mick Jagger da un’altra propsettiva. Quella vera.

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