E il genio, stufo del ’68, si mise a dipingere la bellezza dell’eros

Quando a Parigi scoppiò il ’68, Pablo Picasso si sentì una via di mezzo fra un carcerato ai domiciliari e un naufrago su un’isola deserta. Viveva in una casa sulla strada che da Mougins porta a Vallaurois, alle spalle di Cannes, un tipico mas provenzale del Settecento. La villa si chiamava Nôtre Dame-de-vie, Nostra Signora della vita, dal nome dell’omonima cappella che sovrastava la collina, ed era un nome appropriato: Picasso aveva un proprio senso del sacro, un sentimento religioso arcaico e manicheo, e quanto alla vita ne era ancora pieno, un monumento storico che nessuno poteva relegare, dimenticato, in un museo. Aveva 87 anni e da sei una nuova compagna che ne aveva quaranta, stava diventato sordo, ma per il resto funzionava benissimo.
Man mano che la Francia sprofondava nella contestazione, Picasso si ritrovò ad assaporare una curiosa solitudine. Lo sciopero dei mezzi di trasporto, dei distributori di carburante e dei benzinai, rendeva difficili gli spostamenti, quello delle banche e delle poste impediva gli affari e le comunicazioni, fra i giornali, solo France Soir usciva regolarmente e la programmazione televisiva era stata ridotta a scarni notiziari e vecchi film... Era uno stato di cose, insomma, che lo metteva al riparo da ammiratori, visitatori, seccatori, e dalla esibizione di se stesso, favoriva la concentrazione, dava agli avvenimenti la giusta distanza. Non ci mise molto a capire che non era una rivoluzione, ma una rivolta, una fronda contro il potere dei vecchi fatta dai giovani, qualcosa che aveva a che fare più con la cronaca che con la storia. Non c’era niente di tragico, insomma, e molto di ridicolo, ci si poteva divertire e nel divertirsi dimostrare che un quasi novantenne aveva più inventiva, freschezza, curiosità di chi come parola d’ordine invitava a diffidare di chiunque avesse superato i trent’anni.
Chiuso nel suo rustico di pietra Picasso era il signore incontrastato del proprio dominio, il Robinson Crusoe di un’isola fatta di arte. Jacqueline, la moglie, era una sorta di Venerdì domestico, servizievole ed efficiente, aveva un incisore a disposizione a ogni ora del giorno, notte compresa, Aldo Crommalynk, con un atelier allestito proprio ai piedi della collina di Mougins, e in casa c’era benzina e denaro in contanti per far fronte a qualsiasi necessità.
Per tutta la primavera e l’estate di quel magico Sessantotto la vita di Picasso fu dunque quella di un uomo isolato e di un artista solo alle prese con la propria arte e il risultato furono le 347 lastre di rame della Suite 347, appunto, che ora viene presentata per la prima volta in Italia al Museo civico Ala Ponzone di Cremona (fino al 28 giugno, catalogo Silvana Editoriale). Nella sala che espone la Suite delle 25 acqueforti raffiguranti gli amori di Raffaello con la Fornarina, un cartello «consiglia» la visione «a un pubblico adulto», un passo avanti rispetto alla censura che le vietò al tempo della prima esposizione, Picasso ancora vivente, alla galleria Leiris di Parigi, ma allora come oggi un passo falso, perché questo Picasso non è erotico, ma ironico, il sesso come sberleffo, burla, allegria...
Composta da quattro nuclei tematici, la Suite 347 si apre con Picasso, la sua opera e il suo pubblico, una sorta di presentazione dei soggetti principali e di tutte le tecniche e gli stili utilizzati, prosegue con Mitologia e circo, in cui affiorano la mitologia mediterranea e i temi della sua opera, il Don Chisciotte, la mezzana, i personaggi di Rembrandt eccetera, e con La Celestina, ovvero le stampe selezionate per illustrare l’omonimo capolavoro di Fernando de Rojas, si chiude con Il pittore e la modella che comprende il citato Raffaello e la Fornarina, dove viene ripreso un soggetto già trattato da Ingres, ma con maggiore ironia e malizia.
Per chi vuole divertirsi a vedere come e quanto la cronaca di quella stagione sessantottina abbia eccitato la fantasia dell’autore, si rimanda al saggio «Picasso burlone» di Brigitte Baer presente nel catalogo (curato da Ivana Iotta e Donatella Migliore) che puntigliosamente va alla ricerca di avvenimenti, trasmissioni televisive, notizie giornalistiche trasfigurate poi in creazione artistica. Qui ci accontentiamo di segnalarne uno, il più emblematico, che prende spunto dalla grande manifestazione studentesca al Quartiere latino del 19 aprile ’68. Due giorni dopo, Picasso incide una caricatura di de Gaulle, con una corazza che sembra quella del Filippo IV di Velázquez, i pantaloni abbassati, il sesso inanimato. La «Marianna», cioè la Francia a cui si rivolge, è una donna moderna, grassa e in pantofole che è stata cancellata per far posto a una ragazza magrissima e scalza, un cappello di paglia come unico indumento, una chioma lunghissima. Il generale-presidente della Francia non ha più il suo pubblico, la nuova generazione non ha fascino. Picasso, è il sottinteso, ha ancora l’uno e l’altro... Non andiamo oltre con gli accostamenti e i prestiti perché, come diceva Picasso stesso, «ci sono molti enigmi nelle 347 incisioni e senza dubbio, data la loro stranezza, continueranno a rimanere tali a lungo, forse per sempre»... In realtà, tutta la Suite 347 è una sorta di inno panico fatto di concentrazione ed energia, dove si irride e si scherza su tutto, la vecchiaia impotente e la giovinezza incosciente, gli sfarzi inutili del potere e le lusinghe del successo, il sesso ridotto a guardonismo e il sesso come lotta estenuante che porta alla morte, i cortigiani e i saltimbanchi del potere.
La vecchiaia di Picasso fu artisticamente piena quanto lo erano state la giovinezza e la maturità. Tra il ’69 e il ’70 dipinse ancora 165 quadri, nel 1971, per i suoi novant’anni, Parigi lo festeggiò con un omaggio straordinario, mai tributato prima di allora a nessun artista vivente: una esposizione nella Grande galleria del Louvre... Lui non andò e le foto scattate quel giorno mentre se ne sta a dipingere a Nôtre Dame-de-vie rimandano a quelle di almeno un ventennio prima, gli immensi occhi scuri scintillanti di intelligenza e di vita, un uomo nella sua integrità.

Morirà tre anni dopo, quasi senza accorgersene e il miglior epitaffio resta una poesia di Rafael Alberti: «Per te ogni giorno inizia/ simile a una possente erezione, un’ardente/ lancia puntata contro il sole che sorge./ È Priapo che inturgidisce ancora/ l’invenzione della tua grazia e dei tuoi mostri».

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