E la Germania disse: «No ai multimilionari stranieri»

LA RIVOLTA «Non vogliamo che il nostro calcio sia controllato dalla Russia o dall’Asia»

di Tony Damascelli
La Germania del calcio ha deciso: sì ai respingimenti dei soldi che arrivano dall’estero, no agli investitori invasori. La Lega tedesca delle trentasei società di prima e seconda divisione ha ribadito il divieto del «50+1», la norma che non permette l’acquisizione del pacchetto azionario di maggioranza di un club da parte di imprenditori stranieri. È stata così respinta la proposta avanzata da Martin Kind, presidente dell’Hannover che aveva chiesto alla Bundesliga di aprire ai nuovi capitali esteri per rinforzare i piccoli club e portare maggiore equilibrio, non soltanto nelle finanze ma anche nelle competizioni. Per passare, la proposta avrebbe avuto bisogno di almeno due terzi dei votanti, Kind è stato messo all’angolo, un solo voto a favore, il suo, tre astensioni e trentadue voti contrari, una sconfitta clamorosa e la vittoria di una filosofia che accompagna il calcio tedesco, come ha ribadito Reinhard Rauball, presidente della Lega: «La Bundesliga è fedele a se stessa e continua ad appoggiarsi a fattori che hanno contribuito decisivamente al successo del calcio tedesco nelle ultime due decadi: la stabilità, la continuità e la vicinanza ai propri tifosi».
La scelta della Germania non è autarchica ma di controllo a un movimento che in altre realtà calcistiche europee ha portato e trascina situazioni di confusione, di squilibrio e, nei casi più delicati, con risvolti giudiziari. «Non vogliamo che il nostro calcio sia controllato dalla Russia o dall’Asia» ha detto herr Watzke, presidente del Borussia Dortmund; qualsiasi riferimento a Roman Abramovich e ai suoi cloni è puramente voluto, l’invasione degli investitori stranieri a macchia di leopardo nel calcio britannico (russi, uzbeki, americani, fondi sovrani arabi, thailandesi) ha portato a una crisi di identità dello stesso sistema inglese e scozzese che, comunque, storicamente ha un respiro geopolitico e finanziario indirizzato verso quelle aree.
Del resto abbiamo visto, nel nostro piccolo mondo antico, recenti immagini grottesche, usando un aggettivo dolce: Tim Barton, il texano che voleva comprare il Bari, è rimasto nei fumetti dei cow boys e nelle barzellette raccontate dai tifosi pugliesi; l’albanese Taçi, con le sue brame di impossessarsi del Bologna o del Milan, è finito in galera prima ancora di presentarsi alla cassa; i gruppi russi che volevano mettere le mani sulla Roma sono ancora in gita turistica sulla Piazza Rossa; gli inglesi dell’Enic (prima Stellican) che si erano divertiti con il Vicenza Lanerossi hanno detto bye bye restituendo il club ai vicentini; i libici sono fermi a quote basse nella Juventus.
Il calcio multimilionario rischia l’overdose e la scelta tedesca dovrebbe servire da riferimento per altre nazioni. «La decisione della Bundesliga mi piace ma non è certo l’Uefa a poter imporre regole finanziarie all’interno dei vari Paesi iscritti, noi ci occuperemo di controllare la trasparenza dei conti» ha commentato Michel Platini presidente dell’organizzazione calcistica europea.


Il problema, in ultima analisi, non è quello di impedire ad eventuali capitali stranieri di entrare nel sistema calcio italiano (per arrivare al break even sono necessari e indispensabili) ma di impedire, come ha deciso il sistema tedesco, che ne prendano il possesso, non soltanto la proprietà, con le conseguenze legali e storiche che si conoscono.

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