E l'Aurora di Guido Reni oscurò Caravaggio

Il grande artista bolognese fu il campione del bello ideale che contrastò la pittura della realtà, aprendo una nuova stagione

E l'Aurora di Guido Reni oscurò Caravaggio

La presenza di Caravaggio a Roma e la straordinaria eredità che lascia non impediscono, come già si leggeva bene nella Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, dominata dall' Assunta di Annibale Carracci, che la forza della tradizione raffaellesca, e la sua ispirazione al bello ideale perdurassero nello stesso tempo e, alla fine, prevalessero. Un combattuto ammiratore di Caravaggio, suo malgrado e contro i suoi stessi principi, Giovanni Pietro Bellori, solleciterà i pittori a perseguire il miraggio di quel bello ideale, vilipeso, contrastato e negato da Caravaggio. Da una parte, dunque, la pittura della realtà; dall'altra, la pittura del bello ideale.

Morti quasi contemporaneamente Caravaggio (1610) e Annibale (1609), il seguito del primo è dirompente, diramato, travolgente: ne abbiamo visto ( la scorsa settimana su queste pagine, ndr ) un esempio formidabile nelle Storie di San Francesco di Simon Vouet in San Lorenzo in Lucina, con una dissacratoria potenza, carica di sensualità e di turbamenti. Sull'altro fronte non mancano, soprattutto con Domenichino e l'Albani, i continuatori, di eletto magistero, di Annibale Carracci; ma l'antagonista vero, radicale, in un percorso che lo porterà alla dissoluzione della forma e del colore, è Guido Reni.

Fin dai suoi esordi, paralleli all'esperienza di strada con i ragazzi di vita di Caravaggio, Guido Reni ha chiari i suoi riferimenti, che non saranno certo Bacchini malati e amorini vincitori, di controverso erotismo, ma, come si conviene, riflessioni sul momento più alto del classicismo bolognese in forza della presenza di Raffaello. Così Guido Reni esordirà con una copia della Santa Cecilia commissionata dal cardinal Sfrondato, a indicare una direzione e una volontà, ribadita agli esordi del soggiorno romano, in apertura di secolo, nella Santa Caterina d'Alessandria della collezione Lauro a Bologna. Intanto Caravaggio è impegnato a fare la sua rivoluzione con molti radicali seguaci. Di lì in avanti le vicende dei due pittori, se si esclude la breve infatuazione caravaggesca della Crocifissione di San Pietro , ora ai Musei Vaticani, avanzeranno parallele e separate; e, lontano da Roma, Caravaggio entrerà, oltre la vita, nella leggenda.

Dopo la morte di Caravaggio si apriranno due strade. Una, percorsa dai fedelissimi di Caravaggio, italiani, francesi, spagnoli, tedeschi, a partire da Jusepe de Ribera; l'altra, degli idealisti, che avranno subito il loro luminoso paradigma, anche beneaugurante, per una lunga giornata di sole, nell' Aurora del Casino Pallavicini, di Guido Reni, dipinta tra 1613 e 1614. Caravaggio non solo è alle spalle: è rimosso. Il cielo di Guido Reni è dorato. Apollo guida il suo carro dentro il Sole, preceduto dall'Aurora in volo, sopra uno sconfinato mare azzurro. È finita la notte. Apollo è circondato da un coro di fanciulle danzanti, le Ore. D'altra parte, l' Aurora per Reni rappresenta un nuovo inizio, senza il principale rivale, dopo la prima stagione romana. Chiamato da Paolo V, ritornò, appunto, nel 1613, e fu pagato nel 1616, come leggiamo in un documento, dov'è ricordato come Guido «Renzi».

Manifesto del nuovo idealismo, il capolavoro di Reni apre la strada a una carriera con alcuni episodi mai drammatici, per contrasto, ma sempre memorabili, per armonia. Ne è un esempio l' Annunciazione , inviata ad Ascoli Piceno nel pieno della maturità, quando Reni aveva 53-54 anni. Mai prima, se non Beato Angelico, un pittore aveva concepito un mondo di perfezioni, un'immagine più pura di questa: «L'Angelo è sceso di cielo in terra a miracolo mostrare». È un adolescente leggiadro, femmineo, guidato da una luce che proviene dallo stesso cielo dell' Aurora . I cieli di Reni sono imperturbabili, anche quando sono turbati. Le ali, più grandi di lui, si alzano come un monito semplice alla vergine timida e composta, ma interiormente regale perché scelta da Dio. Sono due giovinetti che, timidamente, s'incontrano, scambiandosi parole d'amore. È finito il momento dei grandi festeggiamenti in sontuosi palazzi; nella piccola e decorosa stanza della Vergine, con la finestra che si affaccia su un paesaggio azzurro e rosato, l'Angelo entra come un corteggiatore sospinto da una nuvola, per potere ritornare, come un sogno, nel suo cielo. La semplicità della composizione è disarmante. Bellori (che era nato nell'anno dell' Aurora ) poteva iniziare a dirsi soddisfatto, ma Guido non lo era. E, continuamente inquieto, era determinato a dissolvere la forma.

Ne abbiamo un esempio, di circa dieci anni dopo, in un dipinto consistente per concezione e soggetto: La Caduta dei Giganti , dipinta per Casa Isolani a Bologna. Quanto, all'apparenza, la forma è consistente, tanto più l'esecuzione si fa rarefatta, impalpabile, con una materia pittorica liquida e sottile, distesa con colpi veloci e grande consapevolezza degli effetti. Lo vediamo bene nel braccio del gigante più vicino a noi che, con una mano d'aria, sostiene un masso all'apparenza pesante. Guido sta realizzando il suo obiettivo: tradurre la materia in pensiero, dipingere nell'aria, alitare la forma. Nessun pittore era arrivato a tanto, neanche l'ultimo Tiziano, informale ma rimasto materico. Per Reni, la realtà è essenza. E tutto deve trasfigurare in luce. Con questo sembra anticipare una intuizione di Eugenio Montale: «Svanire è dunque la ventura delle venture». Ed è questa condizione cui aspira Guido Reni, annullando le forme sino a farle diventare aria o nebbia, e i colori fino alla monocromia. Il Giove della Caduta dei Giganti ha tutta la sua potenza immersa nel rosa.

Nessuno, se non Michelangelo, ha compreso la forza del non finito come Guido Reni, il quale però lo trasporta fuori della forma, alla ricerca dell'essenza. Le sue opere, dal 1640 al 1642, di diversi soggetti, anche monumentali, e sempre non finite, passarono dalla bottega del pittore alla collezione del cardinal Sacchetti, e poi da Benedetto XIV alla Galleria capitolina. Una serie di opere commoventi per ciò che nascondono e per ciò che rivelano. Reni, alla fine della vita, si libera di tutto, dell'iconografia, dei soggetti mitologici e religiosi, del disegno, della materia e del colore. Dipinge fantasmi, arrivato alla fine del bello e anche dell'ideale, e ancora più lontano da Caravaggio. Dei corpi, se mai vi furono, restano soltanto le anime. E le anime sono espresse in una pittura senza consistenza.

Nessuno è andato più in là, partendo da un mondo certo, nemmeno Turner. L'ultimo Guido Reni sembra corrispondere al titolo del libro su di lui di Manlio Cancogni, L'essere e il niente .

@StampaSgarbi

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