E ora i compagni sposano la finanza

Vendola e Camusso, addio cortei: pur di scavalcare il Cav sono pronti ad allearsi con la Bce. E il Pd, messo all'angolo da Napolitano, dice sì

E ora i compagni  sposano la finanza

Se solo potesse, mezza segreteria del Pd parteciperebbe sabato a Milano alla manifestazione indetta dal Foglio e dal Giornale per le elezioni subito. Sfumata rapidamente la legittima soddisfazione per la caduta di Berlusconi, infatti, è bastato al Pd guardarsi intorno e fare due conti per provare all’istante un grande mal di pancia. Come si fa, dopo due anni abbondanti di opposizione dura e pura e di cortei con la Cgil, a diventare di colpo il partito dei banchieri?

Fra i tanti paradossi di questa nostra Italia c’è infatti anche questo: mentre Di Pietro alimenta il suo antiberlusconismo riscoprendo la lotta di classe e denunciando la «macelleria sociale» dei banchieri e dell’Europa, il Pd bicefalo e un bel pezzo di sinistra antagonista - da Vendola alla Camusso - in nome del superamento di Berlusconi sono pronti in un batter d’occhio ad allearsi con la Bce e con il Fondo monetario.

Il blitz di Napolitano ha messo con le spalle al muro un intero sistema politico, incapace tanto di governare quanto di cambiare governo: a sinistra, questo si è tradotto in un vero e proprio terremoto. Di fronte alla netta richiesta del Quirinale, Bersani non ha potuto che dire di sì; nel partito, è stato in particolare un deciso intervento di D’Alema a convincere il segretario a non far pazzie.

Bersani però ha chiesto al capo dello Stato (senza tuttavia poterne fare una condizione vincolante) che anche Di Pietro fosse della partita. Il Quirinale, com’è ovvio, s’è detto impegnato a raccogliere il più vasto consenso possibile intorno al nuovo governo, e un giro di telefonate con l’Idv, nel tardo pomeriggio di mercoledì, sembrava aver rassicurato Bersani. Poi, in serata, l’esplosione omofoba di Di Pietro in tv che chiudeva ogni spiraglio: «Due maschi - cioè il Pd e il Pdl - in camera da letto non fanno figli».

Già, perché il problema che adesso si squaderna di fronte al Pd è duplice: da un lato, bisogna reinventarsi da capo una nuova strategia politica, perché è evidente anche a un bambino che dopo aver governato anche soltanto sei mesi con Monti e contro Di Pietro, per il Pd è impossibile tornare alla vecchia alleanza.

Dall’altro lato, però, c’è una questione più urgente e persino più drammatica: come farà il Pd ad appoggiare i provvedimenti di Monti (e non soltanto la sua nomina) senza scontrarsi non soltanto con Di Pietro, ma anche con Vendola, con la Cgil, con la Fiom e persino con il responsabile economico del partito, quel Fassina che ha respinto al mittente la lettera estiva della Bce?

L’«enorme lavoro da fare», di cui il premier in pectore ha parlato l’altra sera a Berlino, non sarà né breve né indolore: per Monti uscire dalla crisi e far ripartire l’Italia significa metter mano a «riforme strutturali che tolgano ogni privilegio alle categorie sociali che ne hanno». Il che significa, in buona sostanza, smantellare il Welfare all’italiana che piace tanto ai sindacati. Il Pd, Vendola, la Cgil sono in grado di affrontare l’impresa? Sul web è già esplosa la protesta della base, la «Velina Rossa» ha già pronunciato la sua scomunica.
Il Partito democratico, pirandellianamente, è uno, nessuno e centomila. Sarà uno al voto di fiducia, perché con Napolitano non si scherza, ma un minuto dopo cominceranno i problemi.
Per i settori riformisti e moderati del partito, Monti costituisce un’occasione di rilancio da non perdere: dai veltroniani del Modem ai lettiani di veDrò, l’entusiasmo è palpabile, e c’è chi in privato già indica il ticket perfetto per il 2013: Matteo Renzi a palazzo Chigi, Monti al Quirinale. A Veltroni sembra che l’idea non dispiaccia; di certo, tutti gli oppositori del segretario (e la parte della sua maggioranza vicina a Enrico Letta) faranno il tifo per il nuovo governo.

Gli spazi di manovra per la segreteria diventano esigui. Bersani spera ancora in una spaccatura o in un irrigidimento del Pdl che faccia saltare il tavolo («Se per volontà della destra non sarà possibile dar vita a un nuovo governo - ha detto all’Unità - si vada subito alle elezioni. Noi non abbiamo paura di andare al voto»), e la determinazione con cui Rosy Bindi condanna oggi ogni ipotesi di «ribaltone», dopo averne accarezzato il sogno almeno dal 14 dicembre dell’anno scorso, la dice lunga sul terrore del Pd di ritrovarsi, letteralmente, con il cerino in mano. Quel che è certo, è che Bersani non sarà più il candidato del centrosinistra alle prossime elezioni. Per la buona ragione che quel centrosinistra è stato spazzato via in ventiquattr’ore dall’alluvione quirinalizia, e riesumarlo non sarà affatto facile. Lo scenario è radicalmente cambiato, e la caduta di Berlusconi ha nei fatti trascinato con sé anche Bersani.

Saranno Renzi e Zingaretti a giocarsi la partita. E qualcuno a mezza voce già ipotizza un congresso per la prossima primavera o addirittura una costituente che oltrepassi il Pd e faccia i conti fino in fondo con il dopo-Berlusconi.

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