E ora il mondo teme una nuova bolla di internet

La coincidenza è di quelle che fanno scattare frenetici gesti di scongiuro. Il 10 gennaio del 2000 Aol, uno degli astri più lucenti della prima era d’oro di internet, annunciò la fusione con Time Warner, il gigante che aveva nel suo portafoglio, tra l’altro, la Cnn, allora numero uno al mondo dei network di news. Un’operazione da 350 miliardi di dollari. L’anno dopo scoppiò la bolla e la net economy si afflosciò come un soufflé venuto male: nel bilancio del 2002 Aol Time Warner accusò quasi 100 miliardi di dollari di perdite e i due gruppi poco dopo divorziarono.
Lo scorso 7 febbraio il nome di Aol è tornato a riecheggiare per un’altra acquisizione rumorosa: il sito di news Huffington Post, creato con un investimento di un milione, è stato inglobato per 315 milioni di dollari. Corsi e ricorsi, a dieci anni dalla catastrofe in Borsa delle cosiddette dot.com? Qualche analista ha trovato il coraggio di dirlo apertamente: ma non si starà gonfiando una nuova bolla speculativa intorno al web?
I casi non mancano. Zynga, ad esempio, è uno di quei nomi seguiti con attenzione dai mercati. Si tratta dell’azienda che ha lanciato i videogame Farmville e Cityville, roba capace di tenere inchiodati al monitor 140 milioni di utenti disposti a pagare per arredi agricoli e urbani virtuali. Si stima che l’anno scorso Zynga abbia portato a casa utili intorno ai 400 milioni di dollari. Niente male, ma sono abbastanza per rendere credibile la cifra di dieci miliardi di dollari come valore stimato dell’azienda? La fila degli scettici si va allungando.
E che dire di Facebook? Il più rinomato social network del mondo, un «libro delle facce» attraverso il quale tenersi in contatto con vecchi e nuovi amici, viaggia su stime stellari: 50 miliardi di dollari. Con tanto di timbro di Goldman Sachs, che ha accettato di comprare una fettina dell’azienda per 500 milioni.
Eppure anche qui, l’azienda è andata in utile solo nel 2009. Non è stato facile arrivare a coprire con i ricavi della pubblicità gli ingenti costi per mantenere archivi e server. Stesso discorso per Twitter: il sistema che permette di condividere messaggi lunghi come un sms via internet è arrivato a connettere 200 milioni di persone nel mondo e in questi giorni è diventato anche uno strumento utilizzato dai rivoltosi nei Paesi arabi. Per gli utenti è un modo divertente e immediato di comunicare, ma gli investitori fibrillano dalla voglia di buttarci dentro una valanga di soldi, convinti che invece sia un sistema destinato a rivoluzionare il modo stesso in cui navighiamo in Rete.
Alcune di queste società da tempo valutano l’idea di sbarcare in Borsa, circondate da una tale aura gloriosa che di sicuro raccoglieranno valanghe di soldi dagli investitori. Proprio come accadde con la prima febbre del web. Che poi si tramutò in polmonite.
Certo, ora la situazione è diversa: il web 2.0, quello che ci rende tutti sempre più connessi, è certamente molto più radicato di dieci anni fa.

E il modello di business sottostante comincia a delinearsi. Ma il salto da buon affare a miniera d’oro è ancora tutto da provare. Forse c’è chi ha dimenticato che la bolla di internet ci costò più del crac dei derivati. Chi ha voglia di rischiare un bis?

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