E ora nessun pateracchio

Da Kabul a Ceppaloni: il governo Prodi non poteva stare in piedi e infatti è caduto. Troppo tardi e con troppi danni lasciati in eredità al Paese. Ma non è questo il momento di fare i conti: questo è il momento di brindare. Il peggio è passato. L’esecutivo più disastroso che la storia della Repubblica ricordi è andato a casa e per l’Italia è qualcosa più di una bella giornata. È quasi una piccola festa della liberazione.
Prodi ha cercato di resistere fino all’ultimo. Le ha provate tutte per restare a galla, con un orgoglio e una caparbietà che meriterebbero persino l’onore delle armi se non fosse che in realtà nascondono due intenti non propriamente nobili. Il primo: mercanteggiare qualche voto in più all’asta dei senatori. Il secondo: bruciare i ponti alle sue spalle all’insegna del muoia Sansone-Romano con tutti i Veltroni-Filistei.
Per questo l’ormai ex premier ha resistito alla pressione del presidente della Repubblica che lo invitava a dimettersi senza aspettare il voto del Senato e ha scelto di andare fino in fondo, quasi con rabbia, con ostinazione, con furibonda determinazione. Nella storia della Repubblica c’è un solo precedente di un governo che cade per un voto di sfiducia, non all’inizio del mandato, ma mentre è in carica: accadde nel ’98, al medesimo Prodi. Nessun altro premier ha osato sfidare fino in fondo il Parlamento, e il Paese, come ha fatto lui. E per questo la caduta sarà ancora più rovinosa. Farà ancora più male.
Sia chiaro: l’idea di portare la crisi dentro il Parlamento ha una sua limpida coerenza. Peccato, però, che di limpido in questi due giorni di premiato suk Romano sia rimasto ben poco. Trattative segrete, accuse di concussione, strane assunzioni, offerte spericolate, giravolte alla Cusumano, inspiegabili come la marmellata nei maccheroni. Lo spettacolo cui abbiamo assistito a Palazzo Madama è stato indegno, con tanto di svenimenti, insulti ed eccessi di salivazione.
C’è da augurarsi che sia migliore lo spettacolo cui assisteremo a partire da oggi. Il sipario si apre sulle consultazioni. Che cosa succederà? Avendo già visto il peggio nei 617 giorni di governo Prodi e poi nella sua torbida caduta, vorremmo sperare in qualcosa di meglio. E dunque non ci sono alternative al voto, anche a costo di ritornare alle urne (e sarebbe inevitabile) con questa legge elettorale. Né governi tecnici né governi istituzionali né governi del Presidente né pateracchi di alcun tipo: il Paese è stato ridotto in condizioni disastrose da una instabilità troppo lunga e quindi ha bisogno al più presto di una guida sicura. Ha bisogno cioè di un premier che si regga sul consenso popolare e non sui giochini di Palazzo. Visto che siamo nel sessantesimo anniversario, sarebbe utile cercare di celebrare la Costituzione nei fatti. E non solo a parole.
Il rischio depressione, la crisi economica delle famiglie, l’allarme conti pubblici rilanciato proprio ieri dall’Unione europea (ma non andava tutto bene, caro Prodi?), oltre che i problemi della sicurezza e dell’immondizia, richiedono ministri capaci di decidere, presto e bene, su tutto. Non è tollerabile un governo a sovranità limitata.

Perché se è vero che il peggio è passato, c’è anche il rischio che al peggio non ci sia mai fine. E se i festeggiamenti per la caduta di Prodi dovessero chiudersi con un brindisi, più o meno tecnico, per Marini o Amato, beh, quel cin cin a noi andrebbe un po’ di traverso.

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