E ora la polveriera indiana è pronta a esplodere

Gli indiani se lo aspettano. Dopo ogni attentato, che il Paese ormai subisce con una tragica puntualità, arriva l’appello al «mantenimento della pace e dell’armonia sociale». E anche ieri il premier Manmohan Singh si è espresso in questi termini. La paura maggiore dopo ogni strage è che la nazione da un miliardo e cento abitanti, e con la seconda comunità musulmana più numerosa al mondo (140 milioni), risprofondi in uno dei conflitti interconfessionali che vive fin dalla sua nascita.
L’11 settembre indiano, come già lo chiamano molti analisti, arriva in un momento delicato per il Paese e rischia con molta probabilità di capovolgere l’agenda elettorale per le consultazioni generali del prossimo maggio-giugno 2009. Come pure quelle amministrative già in corso in questi giorni in sei Stati dell’Unione. «Si giocherà tutto sul tema terrorismo - secondo Ginu Zacharia, analista politico del think thank ISS a New Delhi - e verrà così messa in secondo piano la questione della crisi economica, vero grande problema del Paese, dove il caro vita ha messo in ginocchio i tre quarti della popolazione». La guerriglia terrorista a Mumbai ha imposto la chiusura di tutti i mercati indiani ieri e gli esperti avvertono che nel pieno della crisi finanziaria globale la nuova ondata di terrorismo avrà un impatto ancora più pesante sull’economia nazionale. Dall’inizio del 2008 sono già 13,5 miliardi di dollari gli investimenti stranieri ritirati.
I fenomeni di terrorismo in India si moltiplicano e non sono riconducibili solo al jihadismo. Vi sono i gruppi armati maoisti - come quelli che i primi di novembre hanno sabotato le elezioni locali in Chattisgarh - e soprattutto i nazionalisti indù - mandanti dei recenti pogrom contro i cristiani nell'Orissa. Un mix esplosivo, che rischia di innescare una spirale di attentati e vendette tra le frange fondamentaliste islamiche e i seguaci dell'ideologia hindutva, che vuole ripulire l’India da ogni contaminazione non indù.
Pur trovandosi di fronte a una bomba a orologeria, la politica nazionale sembra bloccata in una impasse. L'Unione affronta tra maggio e giugno prossimo le elezioni generali e la campagna elettorale è aperta già da un pezzo. In questo clima è facile strumentalizzare la questione terrorismo al fine di raccogliere consensi. Il nazionalista Bharatiya Janata Party (Bjp), maggiore forza di opposizione, parla di fallimento per il National Congress del premier Manmohan Singh, ritenuto di approccio «troppo soft». Advani, leader del Bjp, chiede con forza la reintroduzione del Prevention of terrorism act (Pota), la draconiana legge anti-terrorismo introdotta dal suo partito subito dopo gli attacchi alle Twin Towers e abrogata poi nel 2004.
Dietro l’angolo il demone mai citato esplicitamente, ma sempre principale indiziato di ogni attentato: il Pakistan. Ieri con un gesto inaspettato, Islamabad ha proposto l’apertura di una hotline telefonica fra i suoi servizi segreti e quelli di New Delhi per sconfiggere il male comune del terrorismo. Offerta accolta però con cauta diffidenza. Rivolgendosi alla nazione il primo ministro Singh, ha puntato il dito contro «gruppi che vengono dall’estero».

Giro di parole che di solito è sinonimo di Pakistan. La tesi è sostenuta anche dal generale R.K. Hooda, capo delle operazioni militari negli alberghi assediati di Mumbai: «Provengono da oltre confine, probabilmente da Farikdot, in Pakistan».

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