E il Pd si perde nel teatro dell’assurdo

Il percorso per scegliere il nuovo leader è fatto di consultazioni interne, regole astruse e clausole incomprensibili In Campania e Calabria hanno scoperto più votanti che iscritti. Sospetti di brogli, tessere ai morti, iscritti fantasma

Questo è un articolo per meningi forti. Il tema sono le primarie del Pd, il cui meccanismo elettorale è tanto assurdo da perderci il senno. Un tipico prodotto da intelligentoni di cui, notoriamente, la sinistra sovrabbonda.
Il Pd deve scegliere a chi affidare la guida del partito fino alla prossima defenestrazione, tipo Veltroni. Qualsiasi altro avrebbe fatto un congresso e votato il segretario. Loro invece hanno allargato la decisione a chiunque voglia metterci bocca. Ma amando i ghirigori hanno previsto una serie di passaggi che li occupano ormai dalla primavera scorsa.
Il primo passo è stato la determinazione dei candidati alla massima carica. Questa fase si è chiusa a luglio e ha portato alla ribalta tre nomi: Dario Franceschini, segretario uscente; Pierluigi Bersani, pupillo di D’Alema e campione della corrente veterocomunista; Ignazio Marino, un outsider piuttosto pignolo e tendenzialmente rompiscatole.
Dal giorno successivo, i tre hanno cominciato a litigare e il Pd a dividersi. Di Marino, noto medico trapiantologo di fegati, sono subito saltati fuori gli scheletri nell’armadio. Pare che abbia chiesto dei rimborsi spese, per le stesse prestazioni, tanto a un’università americana in cui insegnava, quanto alla clinica palermitana in cui era primario. Il doppio rimborso ha riempito le cronache fino ad agosto suscitando scandalo, ripicche e sdegnate smentite.
Il secondo passaggio, previsto per fine settembre, era una prima pronuncia sui tre candidati riservata agli iscritti del partito. Quale fosse il significato di questa votazione interna non è dato sapere, dato che la sola che conta è quella fissata per domenica 25 ottobre. Le cosiddette primarie, appunto, con la partecipazione di tutto il «popolo della sinistra», platea più vasta dei soli tesserati. L’inutile rito è stato l’occasione di nuove polemiche e di una parziale rivincita di Marino. A metà settembre, il professore ha infatti denunciato i brogli dei suoi due avversari in Calabria e Campania: aumento vertiginoso degli iscritti, tessere ai soliti defunti, a vari nomi di fantasia e un indecente mercato dei voti. «Non ci vuole un contabile - ha osservato Ignazio riferendosi ai risultati di una sezione napoletana - per capire che qualcosa non va se ci sono 210 votanti su 160 iscritti». A questo punto - ha infierito - «mi aspetto che da quelle parti Bersani e Franceschini possano dimostrare di essere capaci di camminare sull’acqua».
In ogni modo, la scelta dei 467mila tesserati, tra veri e falsi, è caduta su Bersani che ha raccolto il 55 per cento dei consensi, contro il 37 di Franceschini e il modesto otto per cento di Marino.
Saputo il risultato, Ignazio - nonostante l’impareggiabile conoscenza dell’organo - non ha potuto frenare una colica al fegato. L’irato ha fatto notare che lui appariva in tv meno degli avversari. Ha scritto una lettera a Sergio Zavoli, presidente della commissione di Vigilanza Rai, chiedendo la par condicio. «Dai miei calcoli - ha protestato il precisetti - Franceschini è stato in video 47 minuti e un secondo, Bersani 25 minuti e 14 secondi, io solo 8 minuti e 46 secondi». Per dare peso alla critica, ha chiesta a Zavoli di considerare la lizza nel Pd «un fatto di interesse pubblico», alla stregua delle elezioni politiche, e di garantire di conseguenza «una parità di accesso» televisivo ai tre concorrenti. Zavoli, anziché riderci su e spiegargli che la riffa nel Pd era una faccenda interna del partito, ha dato ordine alla Rai di provvedere. Così, da alcune settimane, siamo costretti a sorbirci in dosi massicce e in parti eguali, i tre piddini nei Tg, nei Ballarò, nei Porta a Porta, negli AnnoZero. E poi si lamentano se la gente evade il canone.
La telenovela dovrebbe concludersi con le primarie del 25 ottobre. Dalle 7 alle 20 di quella domenica il «popolo del Pd» si recherà nei gazebo e dirà chi dei tre gli va più a fagiolo. Son ammessi al voto tutti, a partire dai 16 anni. Inclusi gli studenti fuori sede e gli immigrati con permesso di soggiorno anche se in trasferta per ragioni di lavoro. Come si possano controllare le identità resta un mistero. Ma, in fondo, sono affari del Pd e la cosa non ci riguarda. Il punto però è che la faccenda potrebbe non finire lì. Il geniale regolamento delle primarie prescrive infatti che il vincitore debba raggiungere il 50 per cento più uno dei suffragi. Se no, l’ultima parola spetta all’Assemblea nazionale. Un migliaio di persone elette anche loro, con una scheda a parte, lo stesso 25 ottobre. Una roba demenziale che rischia di prolungare la melassa.
Ne sono tutti spaventatissimi e già fioccano le proposte per aggirare lo Statuto. Il primo a gettare il sasso è stato il padre nobile del Pd: Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica. Sul suo giornale, nella rubrica domenicale detta omelia per l’andamento sacerdotale della prosa, Barbapapà ha suggerito di considerare segretario il candidato che raccoglierà più voti, anche se non raggiunge la maggioranza assoluta. Idea da accettare a occhi chiusi pur di metterci una pietra sopra.
Invece - e ti pareva - si è innestato un dibattito. Franceschini si è detto d’accordo con Scalfari. In un primo momento, non sapendo che il suo mentore D’Alema era contrario, si è accodato pure Bersani. Marino, invece, ha detto no: lo Statuto è lo Statuto e va rispettato perché non si possono cambiare le regole in corso di gara. Pura caparbietà senza costrutto, la sua. Non si capisce che vantaggio potrebbe averne lui, il più estraneo all’apparato, da una decisione dell’Assemblea. È chiaro che se la palla passa ai mille delegati cominciano gli inciuci e le manovre di corridoio. E lì ha davvero poche speranze di prevalere. Il massimo che ci ricava, è rimandare la bocciatura dal 25 ottobre al giorno in cui i mille decideranno. E non sarà certo per lui.
Molto più comprensibile il no di D’Alema alla proposta di Scalfari. Da un lato, i due si detestano e in più Barbapapà sostiene Franceschini. Dall’altro, Max è maestro di inganni e quanto a capacità di manipolazione dell’Assemblea non ha rivali.

Se lo lasciano fare, il beniamino Bersani - anche se sconfitto alle urne delle primarie - diventerà segretario e il voto di milioni finirà sotto il tacco dei mille. Prova provata che tra democrazia e sinistra c’è il solito burrone.

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