Uno guarda i ritratti di Giacomo Leopardi, quel volto emaciato, quegli occhi tristi, quelle spalle spioventi, e pensa: «poveretto, era proprio conciato male, ti credo che parlava di pessimismo cosmico!». Poi un giorno, tanti anni dopo, sempre quell’«uno» riceve un libro che s’intitola Leopardi a tavola e pensa: «ah! ecco il solito libercolo d’aria fritta che si fa bello con il nome di un grandissimo, tipo I calzini di Hegel o Platone è meglio del Prozac: destinazione cestino». Però... un momento. Il sottotitolo recita: Quarantanove cibi della lista autografa di Giacomo Leopardi a Napoli. «Lista autografa? - pensa l’“uno” -. Sta’ a vedere che si tratta di fiction, nel qual caso forse c’è uno spiraglio...».
No, né aria fritta, né fiction (che fra l’altro, molto spesso sono sinonimi). Il caro Giacomino lo scrisse davvero, quell’elenco di ricette. È conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli, appunto, la città dove egli visse il periodo più bello (o meno brutto) della sua tormentata esistenza, insieme all’amico Antonio Ranieri. Bene, sulla base di quella lista, Domenico Pasquariello e Antonio Tubelli hanno preparato un piatto originale (Fausto Lupetti Editore, pagg. 190, euro 18). Nulla di «etnico», per carità, né un revival di nouvelle cuisine, che sarebbe ancor peggio, da parte di buongustai italici. La loro parola d’ordine, invece, è: tradizione. Primo perché Leopardi è il poeta italiano più famoso al mondo, se non il più amato. E secondo perché la cucina partenopea, dove i funghi vanno d’accordo con il pesce, le verdure con il riso, gli insaccati con le paste d’ogni forma e tipo, il dolce con il salato, è «globale» ante litteram quanto lo sono i versi di A Silvia o dell’Infinito. Insomma, dei classici.
Dalla Ginestra alla minestra, o dallo Zibaldone allo zabaione, il passo è veramente breve. Anzi, non c’è nemmeno bisogno di muoversi, visto che si sta belli tranquilli con le gambe sotto il tavolo a gustare il trionfo di portate e suggestioni assemblate dai nostri chef gastro-letterari. Il primo, Pasquariello, pittore e fondatore dell’Accademia della Pasta, è un irregolare arruolatosi volontario nell’esercito dei gourmet, mentre il secondo, Tubelli, è uno specialista del ramo impegnato a riattualizzare la grande cucina popolare partenopea anche utilizzando i dettami della «cucina di strada». Questo duo procede spedito, nonostante una prosa un po’ troppo speziata - cioè ridondante e barocca - seguendo un doppio registro: da un lato il Grand tour fra le bellezze del golfo, dall’altro il pantagruelico menu che zampilla come la lava del Vesuvio su ogni desco.
Ma il duo è in realtà un trio. A Pasquariello e Tubelli si aggiunge, naturalmente «in spirito», oltre che nelle ricette riportate dal curioso volume, quel Pasquale Ignarra che sta a Leopardi (il paragone non suoni irriverente, cibarsi è la più affratellante delle attività...) come il cuoco Friz Brenner sta al poderoso Nero Wolfe o Céleste Albaret al gracile Marcel Proust. Dietro le quinte, anzi davanti ai fornelli, il fedele e creativo «Monsiù» Ignarra prendeva il poeta per la gola e lo accompagnava, almeno lui, nel mondo del piacere. E lui, Giacomo, collabora. Nel senso che suggerisce, indirizza, commenta, sperimenta. Detta la linea che Ignarra interpreta da par suo. Esule politico dopo la breve Repubblica Partenopea del 1799, il cuoco si prende la rivincita con piatti «repubblicani», privi di un ingrediente-monarca, ma nei quali ognuno fa la propria parte, per la felicità del poeta libertario fuggito dal «natio borgo selvaggio».
Dai «tortellini di magro» alla «farinata di riso», passando per le «frittelle di mele e pere», gli «gnocchi di latte» e i «pasticcini di maccheroni o maccheroncini, di grasso o di magro», Leopardi annota tutto quanto poté sperimentare, fra Napoli, Torre del Greco, Capodimonte, in buona compagnia.
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