E il «sarto» dell’Inter parlava anche con Vialli e Zenga

Da Collovati a Mihailovic, 30 anni di rapporti con i calciatori. «Ma non c’è mai stato nulla d’illecito, mi spiace che siano stati tirati in mezzo»

da Milano

No, non è stata una sorpresa per i carabinieri del Ros e per il pubblico ministero Marcello Musso imbattersi - mentre scavavano sugli affari di una banda di narcos - nelle telefonate di Roberto Mancini e di altri vip dello spogliatoio interista (Mihailovic, Zanetti, Materazzi: e stop, checché se ne dica in giro). Secondo quanto risulta al Giornale, l’indagine finita ieri sulle pagine di tutti i giornali è la «figlia» di un’altra inchiesta assai più vecchia. Una indagine che risale ai tempi in cui il «Mancio» era ancora un giocatore, all’inizio degli anni Novanta. E già teneva stretti rapporti con Domenico Brescia e altri del gruppo di riciclatori al soldo dei fratelli Crisafulli, i capimafia di Quarto Oggiaro.
Già allora Mancini venne intercettato; insieme a lui si citano il suo gemello del gol Gianluca Vialli, il difensore Fulvio Collovati, il centravanti Alessandro Altobelli, il portiere Walter Zenga. Ecco alcune delle trascrizioni: «Brescia riceve una telefonata dell’ex giocatore Fulvio Collovati che gli chiede alcuni orologi. Domenico dice che glieli procurerà così come aveva fatto per Luca (Vialli)». «Brescia riceve una telefonata di Pasquale Bruno, difensore del Torino, e parlano di abbigliamento». «La moglie di Augusto Giudici (un altro del clan, ndr) riceve una telefonata del calciatore Altobelli che chiede del marito»; «Giudici chiama l’utenza di Mancini e conversa con una certa Federica»; «Augusto parla con Roberto Mancini e parlano di qualcosa che questi ha acquistato»; «Augusto attende una telefonata di Zenga».
Allora come oggi, le telefonate vennero ritenute penalmente irrilevanti: perché fin da allora il nocciolo dei rapporti tra i calciatori (non solo dell’Inter) e il gruppo di narcos appare sostanzialmente lecito, un intenso (e a volte frenetico) scambio di favori in cui circolano orologi, abiti, auto di lusso, biglietti. E dove la vera contropartita per i malavitosi è lo sdoganamento, la possibilità di entrare a pieno titolo nei piani più alti del Gotha calcistico, e acquisire in questo modo nuove entrature. Una strategia che - come dimostra la nuova inchiesta - perdura tuttora: anche se i vertici dell’Inter minimizzano («Brescia non è un nostro fornitore») e uno dei campioni intercettati, Altobelli, si esibisce addirittura in una difesa d’ufficio dell’amico pregiudicato per mafia e omicidio («è una brava persona»), mentre Mancini e Mihailovic minacciano denunce per violazione della privacy.
Lui, Brescia, personaggio chiave della vicenda, formalmente titolare di una società fantasma con sede davanti al Corriere della sera e di un piccolo negozio di scarpe, ma al centro di un giro vorticoso di affari leciti e illeciti, ieri prima cerca di cavarsela con una battuta: «Cosa non si fa per impedire all’Inter di vincere lo scudetto».

Poi aggiunge: «Il mio debito con la giustizia l’ho pagato, mi spiace che per colpa mia, per i miei precedenti vecchi, siano andati di mezzo i giocatori in un momento così». Ma il fatto che fosse tuttora sotto intercettazione lascia supporre che i suoi conti con la giustizia proprio chiusi non siano ancora.

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