E se i festival del cinema fossero avanzi del passato?

L’industria del grande schermo è messa all’angolo dalla concorrenza di serie tv di culto e perfino dei videogiochi. I giochi sono sempre più complessi e offrono un'esperienza profonda e totalizzante

E se i festival del cinema fossero avanzi del passato?

Domani inizia la Mostra del cinema di Venezia. In ottobre parte invece il Festival internazionale del cinema di Roma. Il grande schermo otterrà l’attenzione di tutti i media con il giusto corredo di costume e gossip.

Proprio per questo viene da chiedersi se il cinema sia ancora una forma d’intrattenimento centrale o quanto a lungo rimarrà tale. Questi grandi eventi sono davvero significativi, come sembrerebbe sfogliando i giornali, o l’eredità di un’età dell’oro ormai trascorsa?
L’impressione è che soldi e creatività abbiano preso altre strade, quelle che portano ai giochi elettronici e alle serie televisive di qualità. L’industria del videogame è sempre più in diretta concorrenza con quella cinematografica. Ne sono testimonianza titoli come Heavy Rain o Red Dead Redemption, girati e scritti da professionisti che transitano dalla cinepresa ai computer. La rivalità tra i mezzi non riguarda esclusivamente l’aspetto grafico (avete visto i trailer in onda in questi giorni in televisione del gioco Mafia2? Chi, di primo acchito, lo distinguerebbe da un film?). In realtà è un’altra la qualità che segna il punto decisivo a favore della console. Nel videogame, non solo il giocatore entra nella parte dell’attore protagonista ma, a differenza di un film, ha anche la possibilità di decidere l’evoluzione della trama. Un’esperienza più appagante? Si direbbe di sì. Almeno a giudicare dai risultati economici. Come fatturato, il videogioco da tempo vale più del cinema. È poi da segnalare una inversione di tendenza: un tempo Hollywood ispirava i videogame. È ancora così. Ma i casi contrari ormai sono numerosi: Resident Evil, Prince of Persia, Final Fantasy, Doom, Silent hill, Mortal Kombat, Assassin’s Creed, Dante’s Inferno, Alone in the Dark, Street Fighter...
Molti giochi elettronici sono rozzi ed elementari (come molti film). Ma l’evoluzione del mezzo, sotto tutti i punti di vista, è stata straordinaria e l’industria si rivolge ormai a un mercato adulto, con esigenze sofisticate. Il denaro non manca. E nelle famiglie italiane ci sono otto milioni di console. Mettere insieme questi due fatti forse offre un quadro attendibile del futuro: la fusione di cinema e videogame?

Soldi e creatività sono di casa anche nelle serie televisive. All’inizio furono i Sopranos. Il successo di Toni e relativa «famiglia» chiarì che infrangere le regole era possibile e premiava. Una serie poteva essere appassionante, profonda, ben scritta, ben recitata; contenere piani di lettura diversi mescolando crime story e telenovela; farsi apprezzare da un pubblico trasversale. Seguì il diluvio, cito soltanto le mie serie preferite: Dexter, Dottor House, Mad Men, True Blood, Sons of Anarchy, The Wire. I divi del cinema fanno la fila per partecipare alle fiction: un tempo forse le avrebbero snobbate. Il parterre degli Emmy televisivi assegnati l’altra sera parla chiaro, nella sua somiglianza a quello della notte degli Oscar. In gara c’erano Spielberg, J.J. Abrahms, Tom Hanks, Al Pacino, Glenn Close, Claire Danes, Alec Baldwin. Tra gli sceneggiatori, c’erano scrittori di primo piano, da David Simon a Richard Price.

Serie come Dottor House, Mad Men e The Wire hanno suscitato il dibattito: per la loro durezza mai vista. Ma anche per i contenuti. L’America (e il resto del mondo) si è chiesta se fosse giusto l’approccio del dottor House, che considera il corpo umano malato una macchina da riparare, o se fosse preferibile una visione più umanistica. Mad Men ha riportato in auge la filosofia individualista, ultraliberale e conservatrice di Ayn Rand. Per molti, il ritratto della criminalità di Baltimora tracciato in The Wire è così preciso da valere più d’un trattato di sociologia.

La scarsa rilevanza di una forma d’arte non le preclude di produrre opere profonde e decisive. L’editoria libraria ha un mercato ristretto. Eppure, di tanto in tanto, escono capolavori incisivi e capaci di creare discussioni accese come Le benevole di Jonathan Littell o Gomorra di Roberto Saviano. Sono però le eccezioni. Nel caso del cinema mi vengono in mente i film di Mel Gibson (The Passion e Apocalypto), Michael Moore (Bowling for Columbine), Ang Lee (I segreti di Brokeback Mountain) e chissà quanti ne dimentico.

Queste però sono le eccellenze, e qui stiamo parlando del prodotto medio, il termometro di un’industria. Il prodotto medio dell’industria cinematografica è così rilevante? Forse per tastare il polso di quest’epoca è meglio guardare altrove.

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