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E sul mercato clandestino vendono i funghi fotocopia

La gran parte della merce arriva dal mare e il controllo dei porti è sempre più difficile. Sembra regolare il marchio europeo CE: ma significa China Export

da Milano
Ma dalla Cina non arriva solo la contraffazione «di qualità». Container con sigarette nascoste tra detersivi, spugne e carbone. Lussuosi capi in cotone spacciati per pigiami da bambini in poliestere pur di abbattere della metà imponibile e dazi doganali. Trentacinque tonnellate di alimenti, tra cotolette, funghi secchi e altre delizie, scaduti e conservati all’aperto, senza osservare alcuna norma igienica. Dopo le carrette di clandestini, i nostri cinquemila chilometri di costa sono presi d’assalto dai malavitosi con carghi battenti il famigerato «made in China».
La contraffazione è pioniere di quella progressiva penetrazione legale lamentata dai mercati del Vecchio continente. Con aumenti da primato: dal 1993 al 2003 è stato stimato un incremento del 1.700%. Tradotto in euro, significa che rappresenta tra il 7 e il 9 per cento dell’intero commercio mondiale. Il fatturato? Sui 450 miliardi di dollari. La Cina fa la parte del leone coprendo (insieme a Taiwan e Singapore) il 70% della produzione mondiale di merce contraffatta. In cifre, 315 miliardi di dollari di fatturato. Destinato a crescere. Infatti, la contraffazione old style, quella dei laboratori dell’entroterra napoletano, dei depositi turchi o della sgomitante Spagna, si ritaglia appena il restante 30 per cento, giocando una partita nel ruolo di chi cerca di perdere il più tardi possibile. Come spesso accade, gli allievi stanno per superare i maestri. I cinesi, infatti, copiano, fotografano, riproducono, dissimulano. Meglio dei loro «antenati» o avversari tradizionali, a iniziare dai napoletani. Li battono, sfida dopo sfida, non solo nei prezzi stracciati, nell’utilizzo di manodopera clandestina a basso prezzo, nella semplificazione dei processi produttivi e nella crescente disponibilità di mezzi e macchinari in grado di agevolare la falsificazione delle griffe. Li battono anche nell’estrosità. Un esempio? I marchi. Il glorioso «made in Italy» è etichetta delle felpe che arrivano da Shekou e degli elettrodomestici targati periferia di Shangai. Ancora. L’ambito marchio CE viene beffeggiato dai mercanti dagli occhi a mandorla e trasformato in un beffardo «China export». I giochi per bambini: ogni cartellino dell’Ue per assicurare standard di sicurezza viene falsificato in tempo reale, avviato alle catene di produzione senza che, ovviamente, i giocattoli che dalla Cina finiranno nelle mani dei nostri figli abbiano quei requisiti indispensabili per stare tranquilli.
La filiera che viene ricostruita dagli inquirenti offre rotte e sistemi di infiltrazione nel commercio legale abbastanza rodate. I componenti falsificati entrano nell’Ue via mare dai porti del Nord Europa o via gomma (camion e Tir) sfruttando gli scarsi controlli alle dogane di alcuni Stati, nuovi membri dell’Unione. Assemblaggio, stoccaggio, vendita all’ingrosso dei prodotti avvengono poi nei Paesi dell’Ue più sensibili alla vendita. Così, per fare un esempio, in Belgio e Olanda vengono prodotti e assemblati articoli di lusso e orologi, venduti poi in tutta Europa. L’Italia non è da meno, vanta il primato europeo di principale Paese consumatore di beni contraffatti. Sembra avviata al tramonto la produzione entro i territori nazionali con i classici laboratori di pellame per borse che proliferavano nella provincia di Prato. Oggi è più semplice importare le merci, determinando una conversione economica delle forze sommerse. Se prima producevano beni contraffatti ora gestiscono la vendita al dettaglio: reti di ambulanti del nord Africa e cinesi a battere le strade, esercizi commerciali che smerciano sottobanco e in nero.
La controffensiva delle nostre forze di polizia non riesce a mantenere i ritmi di questa sistematica aggressione. Scarsa cooperazione investigativa con la Cina, difficili le indagini (comunità impermeabile, assenza di pentiti, difficoltà nella traduzione di una moltitudine di dialetti parlati dagli intercettati). Gli sforzi di certo non mancano. Come i gruppi operativi che, ad esempio, la Guardia di Finanza sta costituendo su espressa volontà del comandante generale Roberto Speciale. Un’unità, ad esempio, è attiva a Genova, monitora l’attività portuale. Alcuni ufficiali hanno invece costituito un punto d’osservazione a Shangai per far decollare la cooperazione. Anche il Sismi sta rafforzando la rete. Ma le velocità sono diverse. E i dati riflettono una partita impari: il made in China rappresenta il 70% della contraffazione mondiale ma dei mercanti individuati solo l’11% sono cinesi. E in carcere non ci finisce nessuno. O quasi.
gianluigi.

nuzzi@ilgiornale.it

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