E Teheran rilancia la sfida alla Casa Bianca

Disponibile a parole, inflessibile nei fatti. A meno di 24 ore dalle aperture dell’America di Barack Obama, pronta a colloqui diretti con l’Iran all’interno di quel «5+1» formato dai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e dalla Germania, il presidente Mahmoud Ahmadinejad cala l’asso di picche iraniano. Ed è un asso pesante e concreto, molto più significativo delle parole di circostanza con cui il presidente iraniano esprimeva, poche ore prima, una disponibilità di principio nei confronti dei nuovi negoziati.
Per posare quell’asso di picche Ahmadinejad sceglie tempi e luoghi significativi. Il momento è quello del terzo anniversario del primo, riuscito esperimento d’arricchimento dell’uranio. Il luogo è il nuovissimo stabilimento di Isfahan, futura fucina di tutto il combustibile nucleare destinato al reattore della centrale atomica di Busher e a quello ad acqua pesante in costruzione ad Arak. L’asso di picche iraniano prende forma in quel luogo simbolico, si concretizza parola dopo parola nei discorsi con cui il presidente e i suoi collaboratori annunciano la prossima entrata in funzione di nuove e più potenti centrifughe destinate ad affiancarsi alle settemila di tipo più vecchio che già sfornano uranio arricchito a tutto ritmo.
Poi, come se non bastasse, c’è il taglio del nastro dello stabilimento. Il luogo è per ora puramente simbolico visto che gran parte dell’attività è concentrata nei laboratori sotterranei di Natanz, ma è destinato, se l’Iran riuscirà a far digerire alla comunità internazionale i suoi piani atomici e a non farsi bombardare, a diventare il cuore della produzione di combustibile nucleare. Da quello stabilimento usciranno nei piani di Teheran 10 tonnellate all’anno di combustibile per il reattore ad acqua pesante di Arak e 30 tonnellate di uranio arricchito per la centrale atomica di Busher.
«La nazione iraniana ha fin dall’inizio seguito la logica dei negoziati, ma basati sulla giustizia e sul completo rispetto dei diritti e delle regole», aveva detto il presidente iraniano qualche ora prima di tagliare il nastro dello stabilimento di Isfahan. In quelle parole gli osservatori più ottimisti si sforzavano d’intravedere il bicchiere mezzo pieno. Dopo la cerimonia di Isfahan è chiaro che la parte più esplicita del discorso era invece quella in cui il presidente ricordava che «i negoziati di parte tenuti in un’atmosfera di minaccia e di condizionamento non sono qualcosa di accettabile per una persona libera». Ahmadinejad ha insomma disegnato un altro doppio «no» all’America di Barack Obama. Un no ricamato con tratto velato e ambiguo nelle dichiarazioni ufficiali rivolte all’America, ma iscritto a chiare lettere in quei fatti destinati a comprovare l’irreversibilità del progetto nucleare iraniano. A sancirlo anche a parole ci pensa il capo della commissione parlamentare sulla sicurezza nazionale Alaedin Boroujerdi. «Oggi l’Iran prova con i fatti che il suo ciclo di produzione di combustibile nucleare è stato completato e di conseguenza la sospensione dell’arricchimento dell’uranio non è più oggetto di discussione».
A rendere più pesante l’asso di picche del presidente contribuisce il suo vice Gholam Reza Aghazadeh, responsabile tra l’altro della commissione nucleare iraniana, spiegando che le nuove centrifughe, di produzione interamente nazionale, «aprono una nuova fase negli sviluppi della tecnologia per l’arricchimento dell’uranio».

Parole che allarmano ancor di più la comunità internazionale, perché grazie a quelle nuove centrifughe non solo sarà più facile e veloce produrre combustibile nucleare per usi pacifici, ma sarà anche più semplice portarlo ai livelli di arricchimento superiori all’85 per cento necessari per un’arma atomica.

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