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E il terrone si ricomprò la Montegrappa perché ama i polentoni

Gianfranco Aquila: "In Veneto si sgobba, c’è poco da fare: non esiste posto migliore al mondo dove vivere Ci sono sempre state due Italie. E sempre ci saranno, con buona pace di Garibaldi..."

E il terrone si ricomprò 
la Montegrappa 
perché ama i polentoni

Col permesso di Claudio Bisio e del suo film Benvenuti al Sud, campione d’incassi, giù al Nord stanno accadendo cose incredibili, magnifiche. Nella vita reale, non nei cinema. Accade che il napoletano Gianfranco Aquila, cresciuto a Portici, alle falde del Vesuvio, nel 2000 venda la sua fabbrica di penne Montegrappa ai signori della Compagnie financière Richemont, la cupola mondiale del lusso comprendente marchi come Cartier e Montblanc, e se ne torni a produrre stilografiche nella terra d’origine, prima ad Agnano e poi a Pastorano. Trascorsi nove anni, accade che Aquila si strugga di nostalgia per Bassano del Grappa, si ricompri lo stabilimento artigianale e venga a vivere di nuovo nel Veneto, stavolta per sempre, lasciando la sua Campania. «Perché la cittadina del ponte degli alpini e della graspa per me è una metropoli, qui ho tutto quello che nella vita un uomo può sognare, e nessuno mi ha mai dato del terrone. Solo gli amici di Milano qualche volta mi chiamano terùn. Se lei adesso mi ordinasse di partire per una vacanza sarebbe peggio che darmi una botta in fronte: non c’è posto migliore al mondo dove stare, qui sono sempre in ferie».
Nel ’15-’18 lo cantavano le penne nere al fronte: «Monte Grappa tu sei la mia patria». Dov’è il lavoro, là è la patria. Ma basta guardarsi attorno un pochettino per capire qualcosa di più della patria adottiva che Aquila s’è scelto. Sulla destra della sua azienda sorge Ca’ Erizzo, da dove usciva tutti i giorni con l’ambulanza Ernest Hemingway, volontario nell’American red cross insieme con l’amico John Dos Passos. Davanti scorre placido il Brenta. Di là dal fiume e tra gli alberi è nato qui: «Il colonnello pensò alla lunga distesa del Brenta, dove sorgevano le grandi ville, coi prati e i giardini e i platani e i cipressi. Mi piacerebbe esser sepolto lassù, pensò». E ancora: «Sono un ragazzo del basso Piave e un ragazzo del Grappa appena arrivato dal Pertica. Sono anche un ragazzo del Pasubio, se sai quel che significa».
L’imprenditore veneto-campano non s’imbroda per meriti che non sono suoi: «Hemingway è stato dappertutto», chiosa con disincanto tutto partenopeo, «e l’unica lode semmai va rivolta a Piero Chiambretti, che nel suo ristorante di Torino ha fatto mettere la targa “Qui non è mai entrato Hemingway”». Però è difficile immaginare che lo scrittore americano sia passato tutti i giorni davanti alla Montegrappa, la prima fabbrica di stilografiche nata in Italia, senza chiedere almeno una volta di Edwige Hoffman ed Heinrich Helm, i due austriaci che l’avevano fondata pochi anni prima, nel 1912.
Non ha certo bisogno d’andare in cerca di testimonial nel passato, Gianfranco Aquila. Uno ufficiale, Jean Alesi, ex campione di Formula 1, ce l’ha già ed è pure suo socio. Per non parlare di Nicolas Sarkozy, David Grossman, Antonio Banderas, Bill Cosby, Lucio Dalla, Mohammed Al-Fayed, Stirling Moss e dei defunti Gianni Agnelli e Michael Jackson. O del bestsellerista brasiliano Paulo Coelho, fotografato sulle pagine del mensile Monsieur con la stilo prediletta, una Espressione in argento e resina madreperlata. O dell’archeologo Valerio Massimo Manfredi, che fa coincidere il suo massimo relax con l’utilizzo di una Montegrappa in celluloide rossa. O di Boris Eltsin, che, quando il 2 gennaio 2000 al Cremlino passò le consegne a Vladimir Putin, estrasse dal taschino della giacca la sua Dragon d’oro e porgendola al neopresidente russo esclamò: «Con questo oggetto ti trasferisco il potere». Sempre quell’anno, Aquila riuscì nell’impresa di ottenere, grazie ai buoni uffici di Massimo Poltronieri, un avvocato milanese collezionista di penne con entrature in Vaticano, il permesso di produrre la stilografica intitolata a Giovanni Paolo II. E mercoledì prossimo presenterà la tiratura limitata dedicata ai 220 anni del Teatro La Fenice di Venezia.
Per una Montegrappa - da questi laboratori non escono più di un’ottantina di pezzi al giorno - c’è chi arriva a perdere la testa. È il caso dell’attore Sylvester Stallone, che in una gigantografia appesa nel corridoio della sede di via Ca’ Erizzo è raffigurato mentre, seduto sul proprio jet, bacia con estatico trasporto una Dragon d’oro. «Gliene regalai una nel 1994. Purtroppo gli è stata rubata. Quando l’ho saputo, la Dragon era già fuori produzione e quindi avevamo distrutto gli stampi per la microfusione. Però per Sly ho fatto un’eccezione: quella che stringe sul suo aereo privato è una prova d’autore in oro, solo per lui, uscita dalle mani dei miei artigiani». L’investimento potrebbe avere presto un inaspettato ritorno: corre voce che Stallone, come Alesi, sia intenzionato a entrare in Montegrappa con una quota. «Non mi risulta», svicola il proprietario. «In compenso ci ha dato un’idea stilistica molto interessante che vedrà la luce nel 2011».
Fra gli innumerevoli motivi per cui Aquila, 67 anni, nativo di Benevento («provincia di Parigi», chiosa scherzoso), ma vissuto fra Napoli e i Campi Flegrei, sta meglio a Bassano del Grappa che al Sud, ve n’è uno all’apparenza trascurabile che, per un esteta qual è il proprietario della Montegrappa, ha un certo peso: qui in Veneto ha potuto circolare liberamente per 20 anni prima con quattro Bentley e poi con tre Rolls-Royce, senza temere d’essere rapito o derubato. L’ultima, una Phantom berlina che costa 420.151 euro, è parcheggiata nel cortile dell’officina accanto alle utilitarie dei suoi 35 operai.
Non teme di suscitare invidia?
«Invidia? E perché mai? Qui tutti sanno che le auto rappresentano un mio pallino artistico. Però mi vedono anche andare a giocare a tennis tre volte la settimana con un Fiorino. Molto più comodo un furgoncino, della Rolls-Royce, per caricarci le sacche sportive. Non è che la vita mia e dei miei figli sia tanto diversa da quella dei nostri artigiani».
Ah no?
«No, perché Leopoldo, 44 anni, il primogenito che si occupa del reparto design, e Giuseppe, 40 anni, l’ultimogenito, che è il direttore generale, arrivano in azienda alle 7.50 come me e non se ne vanno mai prima delle 19.30. E lo stesso la loro madre Diana, in prima linea nel controllo della qualità e delle spedizioni, senza la quale Montegrappa avrebbe già chiuso».
Credevo che i suoi figli fossero tre.
«Credeva giusto. C’è anche Ciro Maria, 43 anni, che era responsabile di ricerca, produzione e sviluppo. Quando vendetti a Richemont e decisi di dare a ciascun figlio la propria parte, il secondogenito preferì, con mio grande dispiacere, ritirarsi per fare il mammo, beato lui».
Non è che sia molto chiaro il motivo per cui lei cedette alla holding ginevrina un’azienda storica che nel suo piccolo andava benone.
«Ricorda che cosa scrive Mario Puzo nel Padrino?».
«Gli fece un’offerta che non poteva rifiutare».
«Ecco».
Quanto?
«Il quanto non posso rivelarglielo. Però le dico solo che su quella vendita versai tasse allo Stato per 11 miliardi di lire».
Sa che cosa dicono i maligni? Che Richemont comprò Montegrappa perché quello era l’unico modo per affossare un marchio che gli faceva concorrenza.
«Io non lo dico. L’ha detto lei».
I maligni sostengono anche che lei vendette a 20 qualcosa che valeva 10, per poi ricomprarselo pagando 2.
«Dovrebbero anche aggiungere che dieci anni fa le holding del lusso facevano a gara nel rilevare le grandi griffe della scrittura. Un mese prima che cedessi Montegrappa, la Lvmh (Louis Vuitton Moët Hennessy, ndr) s’era comprata la Omas di Bologna. Comunque, quando ho spiegato ai signori di Richemont che mi sarebbe piaciuto riprendermi l’azienda, non hanno voluto alcuna garanzia. Anche perché nel frattempo s’era creato un deficit di 2 milioni di euro. E se lei pensa che contiamo di chiudere il 2010 con un giro d’affari di 8 milioni, significa un quarto del fatturato».
Come si spiega una perdita così cospicua?
«Be’, consideri che vendetti l’azienda con 24 dipendenti e l’ho ritrovata con 70 qui a Bassano e altri 15 a Milano, per cui ho dovuto far ricorso a cassa integrazione e prepensionamenti».
S’è comprato anche la Tibaldi, altro marchio storico.
«Fondata a Firenze nel 1916 e ferma da 16 anni. Mi è stata ceduta nel 2004 da Pineider, l’industria della carta intestata di pregio. Pensi che una Tibaldi fatta qui a Bassano, una Fulgor Nocturnus, quest’anno è andata all’asta per beneficenza alla National Charity Ceremony di Shanghai, dov’è stata battuta per 58 milioni di yuan, circa 6,3 milioni di euro».
Quasi il fatturato di Montegrappa.
«Cappuccio, fusto e minuterie in oro massiccio 18 carati con placcatura in rutenio. Pennino dello stesso metallo prezioso parzialmente platinato e rodiato, con cesellata un’aquila in onore della mia famiglia. Tempestata di diamanti neri di altissima qualità: 945 sul cappuccio e 1.113 sul fusto. Più 123 rubini finissimi sull’anello intorno alla clip. E 16 che formavano il bottoncino posto in cima al cappuccio. Insomma, un gioiello».
Da dove nasce la sua passione sfrenata per le stilografiche?
«Eredità di famiglia. Mio nonno Benvenuto era esclusivista di Van Cleef dalla Campania alla Sicilia e sua moglie Gabriella era discendente diretta di Gaetano Argento, filosofo e giureconsulto che fu ministro di Carlo VI d’Asburgo, imperatore del Sacro romano impero, divenuto re di Napoli nel 1713. Mio padre Leopoldo Tullio fu per 40 anni il distributore delle stilografiche Aurora nel Meridione. Nel 1938 creò il marchio Lalex, fondendo le iniziali del suo nome e cognome con lex, legge in latino, a indicare un’azienda basata sui principi dell’onestà, e cominciò a produrre in proprio la Super penna Aquila. Mia madre Giuseppina, nonostante avesse sei figli da crescere, si occupava delle spedizioni, esattamente come fa mia moglie oggi. A 13 anni, finite le medie, papà mi disse: “Che lavoro vuoi fare da grande? Ti do una settimana di tempo per pensarci”. Alla sera avevo già pronta la risposta: il tuo».
Come ha fatto a convincere Jean Alesi a diventare suo socio?
«Semplice: in banca non prendeva niente. “Vediamo che interessi date qui”, ha ragionato. E ha messo in azienda denaro fresco. Ora siede nel consiglio d’amministrazione. Quando c’incontriamo mi dice: “Ciao papà”».
Sia sincero: tornerebbe a vivere a Napoli?
«No, assolutamente. Qui a Bassano sono diventato amico di tutti, persino di quelli che passano per rompiscatole e a cui nessuno rivolge la parola. Forse dipende dal fatto che ho un grande spirito di adattamento e un carattere solare, come tutti i campani. Mia sorella più piccola, Silvana, che abita al Vomero, si arrabbia per questo. “Sei il classico meridionale trapiantato al Nord”, mi rimprovera, come se fossi un traditore. Invece l’altra mia sorella, Gabriella, che ora vive a Fuorigrotta ma è stata qui a Bassano per dieci anni dopo che nel 1981 avevo acquistato per la prima volta la Montegrappa, tornerebbe a viverci di corsa».
Eppure lo sa che cosa pensano i napoletani: i veneti sono razzisti.
«Non ci credo. Non m’è mai capitato d’incontrarne uno».
Ha più paura per le sue attività a Bassano o ne aveva di più ad Agnano e a Pastorano?
«Né qui né là. Nessuno mi ha mai chiesto niente. O meglio: in Campania capitava che a fine mese venisse a bussarti qualcuno in cerca di un’offerta per i figli dei carcerati o per qualche altra necessità sociale, e io lo aiutavo molto volentieri. Ma era una scelta mia».
Si considera più veneto o più campano?
«Mi sento per metà veneto e per metà campano. Non rinnego di certo le mie origini. Però qui vivo bene e là no. Sono un dissociato, ecco. Quando sento una canzone in napoletano, ancora piango, c’è poco da fare».
Questo le fa onore. Mi commuovo anch’io quando ascolto Anema e core.
«Ma io piango anche perché a Napoli due sono buoni e otto sono balordi. Mentre in Veneto otto sono buoni e due sono balordi».
I suoi amici napoletani non la guardano storto per il fatto d’aver investito più al Nord che al Sud?
«Ho sputato sangue e speso soldi a palate per radicarmi in Campania. Ci ho aperto non una, bensì due fabbriche. Ma alla fine ho dovuto desistere. Manca la professionalità, mi dispiace. Non c’è paragone fra un lavoratore di qui e uno di laggiù, prova ne sia che a Bassano mi sono portato solo uno dei miei conterranei, un operaio espertissimo nel taglio dei tubi d’argento e nella cottura».
Quindi non è uno stereotipo il fatto che i campani lavorino meno dei veneti.
«No, è proprio vero. I veneti lavorano di più, non c’è alcun dubbio su questo. D’altronde lei consideri solo come viene chiamato il lavoro nella mia regione».
Come viene chiamato?
«’A fatica. Già la parola t’induce a non lavorare. Però se in Campania una decina di persone imparano a far bene una cosa, stia sicuro che dopo un po’ si mettono in proprio, hanno questo orgoglio, questo gusto per la sfida. Tant’è che al Sud vi sono due aziende, fondate da gente che ha imparato da me e che se n’è andata per farmi concorrenza. In Veneto non ho mai visto nulla del genere. Preferiscono il posto fisso a vita, senza rischi».
Mi dica un pregio e un difetto dei veneti.
«Laboriosi. Un po’ sbevazzatori».
Un pregio e un difetto dei meridionali.
«Generosi. Un po’ sfaticati. Va detto che forse c’entra anche il clima».
Su quali basi si potrebbe creare l’armonia fra Nord e Sud a 150 anni dall’Unità d’Italia?
«Quale unità? Le due Italie sono sempre esistite e sempre esisteranno. Con buona pace di Beppino Garibaldi».
(516. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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