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Ecco chi erano i "briganti" della prima guerra civile italiana

Una mostra e un saggio raccontano la ribellione meridionale all'Unità

Ecco chi erano  i "briganti" della prima guerra civile italiana

Briganti! si intitola la bella mostra allestita, significativamente, al Museo del Risorgimento di Torino (fino al 24 marzo, catalogo Allemandi), con oltre 200 opere, suddivise in più sezioni, che spaziano dai dipinti ai pugnali, dalle fotografie ai manifesti alle illustrazioni di luoghi canonici (grotte, rifugi, prigioni) alle postazioni interattive che visivamente ricreano un'epoca. Partendo dalla fine del '700, la mostra giunge sino alla realtà novecentesca, ma il suo fulcro e l'interesse stanno in quell'arco di tempo fra l'inizio dell'800 e la sua fine in cui l'Italia attraverso mille difficoltà affronta il suo cammino unitario e nazionale e lo fa fra moti e cospirazioni carbonare e poi mazziniane, intelligenti accordi diplomatici alleanze politiche, battaglie campali, audaci e fortunate spedizioni militari... A percorso terminato e a unità raggiunta, ci si accorge però della mancanza di qualcosa, ovvero, riprendendo una formula abusata quanto fortunata, che "fatta l'Italia, bisogna ora fare gli italiani".

Il problema è che quell'Italia è fatta più male che bene e quanto agli italiani non è chiaro se bisogna farli con le buone o con le cattive. Il brigantaggio nasce anche da questo, un insieme di resistenza militare e sociale, autoctona ma anche foraggiata dall'esterno (le vecchie dinastie sconfitte che non si rassegnano, potenze straniere come la Francia, che difendono i propri interessi nazionali) e che affonda le sue radici in una instabilità che è soprattutto economica e per risolvere la quale servirebbero più le riforme che una repressione spesso indiscriminata. Risultato: una guerra civile. La prima, in ordine di tempo.

La prima guerra civile (Mondadori), è del resto il titolo del saggio di Gianni Oliva uscito più o meno in contemporanea alla mostra da cui siamo partiti, e di particolare interesse perché il suo autore, docente fra l'altro di Storia delle istituzioni militari, è un piemontese doc, nulla a che vedere insomma con il meridionalismo più o meno "lazzarone" e/o sanfedista che ha a lungo alimentato nel nostro Paese una lettura antirisorgimentale e controrivoluzionaria. Per giustificare il suo titolo, Oliva lo spoglia "dal pregiudizio ideologico che si riflette nel lessico", ovvero l'equiparazione fra vincitori e vinti delle due parti in causa, e lo riconsegna al suo significato di "lotta armata tra forze di uno stesso Paese, comunque organizzata e quantitativamente significativa". Nel caso in questione, a unificazione avvenuta, nel Mezzogiorno d'Italia vennero impiegati i due terzi del Regio esercito e ci sarà un numero di morti "italiani" superiore alle tre guerre d'indipendenza assommati insieme. Per l'esattezza, nel 1864 raggiungerà la consistenza massima di 166.799 uomini, fra fanteria, cavalleria, artiglieria, genio, bersaglieri e carabinieri. Se si considera, precisa Oliva, che nei cinque anni della guerra civile nel Mezzogiorno, "le altre regioni non possono rimanere prive di presidi, si deve concludere che l'intero esercito è occupato a ristabilire o mantenere l'ordine e che poco o nulla resta per fronteggiare un'eventuale invasione austriaca, il che dà la misura della gravità della situazione interna". Ciò vuol dire altresì che l'esercito italiano, nato dalle guerre d'indipendenza contro un nemico esterno, concepito per compiere il Risorgimento e difendere i confini nazionali, "trova il suo primo impiego massiccio in una guerra civile contro altri italiani, in una regione sconosciuta come il Mezzogiorno, avendo di fronte le rivolte di una plebe affamata e la guerriglia di bande spregiudicate, in una commistione inestricabile di lotta sociale, brigantaggio e contro rivoluzione". Si è fatta l'Italia, insomma, "senza conoscerla e senza studiarla", per completare il precedente aforisma attribuito sempre a Massimo D'Azeglio e entrambi entrati nell'uso storiografico non perché veramente da lui pronunciati, ma per la loro efficacia riguardo al tema affrontato. Come si vede, ridurre il problema del Mezzogiorno italiano a un puro e semplice affare di folclore i Crocco, Ninco Nanco, Sparviero, Memmo O' Chiavone, brutti, sporchi e cattivi, non è tanto e solo riduttivo, è, molto più drammaticamente, sbagliato, se non criminale.

Massimo D'Azeglio, da parte sua, potrà pure non aver detto le frasi con cui si è soliti celebrarlo, ma ha lasciato scritto qualcosa di altrettanto importante: "Capisco che gli Italiani hanno il diritto a far la guerra a coloro che volessero mantenere i Tedeschi in Italia; ma agli italiani che restando italiani non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare delle archibugiate".

La narrazione ufficiale dell'Italia unita dipinge il Mezzogiorno d'Italia come mal governato, re inetti e baroni violenti, con un'economia arretrata e asfittica una società ignorante e semifeudale. È una lettura propedeutica a rappresentare, scrive Oliva, "il Risorgimento sabaudo come unica via al progresso e alla libertà". Da un lato i Borbone come figure antistoriche e dall'altro i Savoia esaltati come i prìncipi della patria liberale... È una "rielaborazione mistificata" che, di fatto, azzera "il prima". Nessuno ricorda, dice ancora Oliva, "che ancora fra il 1830 e il 1840 una parte significativa del movimento liberale immagina che alla guida del riscatto nazionale possa esserci la Napoli di Ferdinando II assai più che la Torino di Carlo Alberto". È anche una questione di clima culturale: le capitali dell'illuminismo italiano stanno a Milano e a Napoli, "mentre negli stessi anni l'ambiente di Torino è opaco e refrattario agli stimoli della ragione". Nel 1754 l'Università di Napoli è la prima in Europa ad attivare la cattedra di economia e commercio, ma in quegli stessi anni il torinese Giuseppe Lagrange, matematico e astronomo insigne, si vede costretto a lasciare gli orizzonti ristretti della capitale sabauda e trasferirsi in Prussia dove c'è un Federico II che lo apprezza per il suo giusto valore. Il Settecento napoletano ha Filangieri, Galiani, Genovesi, quello piemontese non va oltre Vittorio Alfieri, che del resto dal Piemonte scapperà non appena possibile...

Nota ironicamente Oliva che "siamo forse l'unico Paese al mondo che ha il primo re che si chiama già secondo"... Di là dalle battute, quel mantenimento della numerazione dinastica sabauda ci racconta un'altra cosa, ovvero è "la spia del carattere annessionistico dell'unificazione nazionale". Uno storico inglese come Dennis Mack Smith non può fare a meno di constatare che "in ossequio alla vanità dinastica, la Costituzione italiana rimane esattamente la stessa concessa dal Piemonte nel 1848 e il Parlamento del 1861 fu nella terminologia ufficiale non il primo, ma l'ottavo". È anche per questo motivo che il re continuerà a intitolarsi Vittorio Emanuele II, perché, per i giuristi, il Regno d'Italia del 1861 non è uno Stato nuovo, ma un ingrandimento del Regno di Sardegna.

La Storia, si sa, corre più veloce di quanto la politica e la diplomazia riescano a pensare. Cavour, che era un genio in entrambi i campi, avrebbe fatto volentieri a meno del municipalismo del Centro Italia, Stato pontificio compreso, e della complessità meridionale, Napoli e Regno di Sicilia. La sua idea era un'egemonia politica sulla penisola senza però un'annessione, giudicata prematura: "Non bramo minimamente di sospingere la questione napoletana a una soluzione prematura", scriverà, ancora nel marzo del 1860, al suo nuovo ambasciatore a Napoli, il marchese di Villa Marina Salvatore Pes. "Credo al contrario che ci converrebbe che lo stato attuale durasse ancora qualche anno. Temo però che saremo forzati a tracciare ben tosto un piano che avrei voluto aver tempo per maturare". La spedizione dei Mille, su cui dopo metterà il cappello sabaudo, non venne osteggiata solo perché da lui ritenuta irrealistica, la dissoluzione, dall'oggi al domani, del più popoloso e del più armato degli stati pre-unitari, convinzione del resto comune alle grandi potenze, Inghilterra, Francia, Austria, del tempo. Come commenta Oliva, "probabilmente Cavour pensava che una sconfitta di Garibaldi avrebbe rappresentato il ridimensionamento dei democratici e delle loro accelerazioni". Per quanto anche per Cavour, "la truppa" fosse "un grande elemento civilizzatore", la sua morte prematura ci impedisce di capire come avrebbe affrontato la questione meridionale che il nuovo Stato si ritrovava all'improvviso di fronte: un'autonomia amministrativa, una qualche forma di federalismo...

Quello che è certo è che i suoi successori scelsero la strada dell'accentramento rigido e della repressione altrettanto rigida. Vinsero, ma i frutti amari di quella vittoria hanno continuato a marcire sino ai nostri giorni.

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