Sono passati esattamente trent'anni dall'uscita del film «Oltre il giardino» di Hal Ashby. E, guardando l'opera prima di Gastòn Duprat e Mariano Cohn intitolata «L'artista» e in uscita domani (2 ottobre) sugli schermi italiani, la prima cosa che viene in mente è la seguente domanda: come mai un film così intelligente e fortunato come «Oltre il giardino» (impreziosito, peraltro, dalla calibrata interpretazione di Peter Sellars) non abbia fatto da caposcuola a un filone? Che si può immaginare ricco di straordinarie risorse. Strano, in effetti, che un film che con un espediente tanto elementare smaschera la stupidità umana con tutte le sue ipocrisie e snobismi intellettuali non abbia fatto breccia nel nutrito esercito di coloro che scrivono (e dirigono) film.
La domanda viene stimolata dalla storia raccontata da «L'artista». Un giovane e sprovveduto infermiere uruguayano decide di rivelare al mondo le sue doti di artista. Non figurativo, è bene precisarlo. E le prova tutte, partendo proprio dal gradino più basso della scalata al successo: vale a dire il semplice bussare alla porta di una galleria per chiedere di esaminare i suoi disegni. I due registi - che vengono proprio dal mondo dell'arte contemporanea come documentaristi, storici e artisti in proprio - svelano tutti i limiti, i tic, le piccinerie di un mondo dove, grazie all'affermarsi dell'arte concettuale e astratta, i valori e i punti di riferimento non sono poi così stabili come in altri linguaggi artistici. Il risultato è un film molto divertente dove lo spettatore è condotto per mano dentro quel microcosmo popolato da storici dell'arte, artisti, galleristi, opinionisti, collezionisti e filosofi. Lo sprovveduto Jorge di fronte a una simile fauna finisce per avere lo stesso ruolo di Chance il giardiniere (Sellars, appunto) nel film di Ashby. I suoi silenzi, le sue umili domande vengono scambiati per feroci provocazioni e profondissime verità.
Il film però ha uno sviluppo imprevisto quando si scopre che in realtà i disegni sono prodotti da un paziente del nosocomio dove Jorge (Sergio Pangaro) lavora. Si tratta di un anziano sordo-muto costretto su una sedia a rotelle. Un anziano che passa la maggior parte del tempo in uno stato catatonico. E nonostante tutto questo, dotato di uno straordinario talento pittorico. Jorge, quindi, non è poi come Chance il giardiniere. Concede al personaggio dell'ingenuo, come era stato etichettato a inizio film, una metamorfosi. Ora si rivela per un essere spregiudicato anche se ricco di umanità, come solo un bravo infermiere sa essere. Una volta arrivato all'ultimo gradino della consacrazione del successo, Jorge perde la sua gallina dalle uova d'oro. Il finale aperto non ci dice se Jorge è davvero legato a doppio filo a quello del suo paziente e alla di lui instabile creatività. Ma non è più una domanda così urgente.
Se «Oltre il giardino» (tratto dal romanzo di Jerzy Kosinski) puntava tutto sulla satira alla società americana istupidita dal potere inibente della televisione, «L'artista» sfrutta lo stesso meccanismo di ribaltamento delle ipocrisie culturali mettendo a frutto anche le competenze dei due registi. Dicevamo che Duprat e Cohn provengono da quello stesso mondo dell'arte ferocemente messo alla berlina dalla pellicola. Però c'è spazio anche per la poesia, e per la verità ultima dell'arte stessa. La fotografia di Ricardo Monteoliva, infatti, ottiene il lodevole risultato di mostrare allo spettatore che anche la quinta più quotidiana può trasformarsi in uno stupendo e toccante quadro. L'opera d'arte cioè è nella disposizione di chi osserva.
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