Tra gli oltre cinquemila alpinisti che nella storia sono riusciti a conquistare la vetta dell'Everest (8.848 metri), c'è solo una donna nera africana. Si chiama Saray Khumalo, ha 48 anni, e la sua impresa è nata con un preciso obiettivo: incoraggiare tutte quelle donne che nel Continente nero subiscono i soprusi e le angherie dell'integralismo islamico. «Abbiamo tutti un sogno nel cassetto - racconta - poi a volte subentra la pigrizia, oppure, peggio ancora, la paura di non riuscire a ottenere risultati. Ed è qui che ci sbagliamo. Tutto diventa impossibile nel momento in cui ci si arrende prima ancora di iniziare. Per me l'Everest è stato il tentativo di spianare la strada della consapevolezza femminile. Per quelle della mia generazione e di quelle future». Saray mostra il pollice della mano destra ustionato. Si è congelato durante la scalata, ha rischiato l'amputazione, ma non si è fermata. «Non volevo che un piccolo incidente mandasse in fumo mesi di lavoro. Nessuno dovrebbe mai imporci cosa fare e cosa non fare, nella vita non servono scuse».
Saray si considera una vera figlia dell'Africa. Risiede a Johannesburg, ma è nata nello Zambia, da genitori di origini ruandesi e nel suo percorso studentesco si è spostata tra lo Zimbabwe e l'ex Zaire. «La generazione precedente ci ha regalato la libertà che sperimentiamo oggi, ma cosa farà la mia generazione per la prossima? Stiamo insegnando loro che il mondo è pieno di opportunità, non solo di ostacoli da superare». Saray, mamma di due maschietti e top manager di uno degli istituti finanziari più prestigiosi del Sudafrica, ha iniziato con l'alpinismo quasi per caso una decina d'anni fa. Aveva appuntato sul diario tutta una serie di cose che avrebbe voluto fare entro i sessant'anni. Ha raggiunto l'Everest, ma nei prossimi anni vorrebbe conquistare tutti gli altri 8mila del pianeta. Nel suo curriculum ci sono il monte Elbrus (5.642 mt) in Russia, l'Aconcagua (6,962 mt), la montagna più elevata della Cordigliera delle Ande, e il Kilimangiaro (5895 mt) in Tanzania. «Quando cercavo di condividere i miei sogni con gli amici, quasi venivo derisa. Mi dicevano che una donna africana non avrebbe mai potuto scalare le montagne. Oggi non ridono più». La fama inaspettata di una donna, che fino a poco prima era una cittadina anonima come un'altra, si è trasformata in responsabilità e sostegno alle fasce deboli. Nei mesi scorsi ha sposato la causa di Regenesys, un'associazione sudafricana che si occupa di educazione, finanziando un progetto a favore delle donne maltrattate, soprattutto nell'ambito dell'islam più integralista. «Le loro sono montagne più difficili da scalare rispetto all'Everest - ci tiene a sottolineare . Il burqa è più pericoloso di qualsiasi parete. La roccia è vita, è natura, è sfida, il velo uccide qualsiasi forma sociale. Se non sono le donne a sostenere la propria indipendenza, allora si va verso un fallimento totale».
L'Everest è un olimpo esclusivo dove l'ossigeno è poco e l'aria rarefatta, un circolo elitario di super umani capaci di dominare i propri sensi, la natura, la paura e la fatica. In questo paradiso sportivo spuntò, per la prima volta al femminile, la figura gracile e sorridente della giapponese Junko Tabei nel 1975. La seconda ascensione fu compiuta dalla tibetana Phantog, e la terza e prima europea dalla polacca Wanda Rutkiewicz nel 1978. La prima donna italiana a salire l'Everest è stata la campionessa italiana di sci di fondo Manuela Di Centa, che ha raggiunto la cima il 23 maggio 2003. Saray Khumalo è stata la prima africana nera. Il suo progetto avanguardista è stato inizialmente osteggiato dalle condizioni meteorologiche e ambientali. Saray, durante l'ascesa, ha visto il suo campo base spazzato via da una valanga improvvisa ed è rimasta bloccata per quasi sei minuti perdendo conoscenza. «È stato Thinduk, il mio sherpa, a riuscire a liberarmi dopo lunghi e affannosi attimi di paura». Un incidente che non ha provocato vittime ma che ha generato tantissima tensione. Anche perché, come racconta, ci aveva già provato nel 2014 assieme al maratoneta sudafricano Sibusiso Vilane, ma la missione era fallita per via di un'improvvisa valanga. Saray, percependo il momento e ricordando l'esperienza passata, ha deciso di rimettersi subito in marcia, scrollandosi di dosso fantasmi e ombre psicologiche. Nei dodici giorni successivi, dopo aver percorso impavidamente il tragitto effettuato da Edmund Hillary (primo uomo a completare la scalata nel maggio del 1953), è riuscita ad alzare le braccia osservando l'infinito terrestre. Il 16 maggio 2019 è diventato un giorno leggendario per la storia sportiva africana al femminile. La scalatrice è riuscita inoltre a raccogliere fondi da molti sponsor e privati, che ha utilizzato per realizzare biblioteche per bambini dei quartieri disagiati di Johannesburg e finanziare la sua associazione.
Saray è un fascio di energie e si sta allenando per il suo prossimo obiettivo: la traversata a piedi del Polo Sud. Nella nuova spedizione verrà accompagnata da Colin O'Brady, il primo uomo (nel 2016) a completare la traversata del Polo Sud in solitaria e soprattutto senza assistenza. Nello stesso anno aveva scalato le vette più alte dei sette continenti, tra cui l'Everest, in 132 giorni, diventando così il più veloce scalatore dei sette vertici. «Colin è una persona che riesce a regalarti stimoli incredibili - racconta Saray . Ci siamo incontrati a Londra e mi ha spiegato che le possibilità di portare a termine il tragitto sono concrete.
Anche se la tecnica e l'abilità da sole non ti portano in vetta o non ti fanno attraversare 1.600 chilometri tra neve e ghiacci. È la forza di volontà la cosa più importante. Questa forza di volontà non puoi comprarla con i soldi e non puoi riceverla da altri, ti arriva dal cuore».
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