Ecco «Enrico Mattei», il manager che non si è arricchito

Roma«Non voglio essere un uomo ricco in un Paese povero». Forse la chiave interpretativa dell’uomo Enrico Mattei, sta tutta in quest’inconsueta, a suo modo incredibile affermazione. Perché non è tanto al manager più ricco e potente dell’Italia del dopoguerra, quanto al sognatore abile e insieme concreto, al pioniere idealista ma anche scaltro, che guarda Enrico Mattei: la miniserie di Giorgio Capitani (in onda domenica e lunedì su Raiuno) in cui coraggio e spregiudicatezza del ricostruttore dell’Agip e fondatore dell’Eni vengono indossati da Massimo Ghini. «Da tempo sono legato alla figura di Mattei: faccio sempre il pieno all’Agip - scherza (ma non troppo) l’attore romano -. E pensando che oggi, in Italia, chi ha meno di 45 anni difficilmente sa chi sia stato, rimango affascinato dalla storia di quest’uomo assolutamente geniale». Tecnicamente Ghini ha affrontato il personaggio con metodi abituali («Vedendo l’intervista tv fattagli nel ’61 da Enzo Biagi ho capito che era diretto ed estroverso: uno che quando parlava voleva soprattutto essere capito»). Umanamente, invece, il problema è stato più delicato. «Certo: non fu uno stinco di santo. Celebre la sua cinica affermazione: “Uso i partiti politici come il taxi. Mi faccio portare dove voglio, e poi li pago”. Ma io ho sempre odiato la retorica degli eroi. Fuori dai denti: Mattei iniziò come scalatore sociale. Era il provinciale che vuol vestire elegante, avere una bella moglie, diventare qualcuno. Ma è anche vero che tanta spregiudicatezza la usò sempre e solo nell’interesse dell’Italia. Non volle mai percepire lo stipendio di presidente dell’Eni. E ogni volta che usava l’aereo privato dell’azienda, pagava la benzina di tasca sua». Manager dedito all’interesse comune più che al proprio, insomma. Quanto diverso da certi imprenditori d’oggi, spesso accusati d’essere più artefici che vittime dell’attuale crisi? «Non voglio fare facili ragionamenti da benpensante. Mi piace credere che, a fronte di alcuni manager messi in discussione, ce ne siano altri che lavorano con spirito di servizio al proprio Paese. Però, certo, oggi la parabola del mestiere conosce una curva discendente; proprio per questo la fiction deve proporre esempi alti di passione civile». E l’imprenditore anticonvenzionale e iperattivo divenuto senatore, non ricorda quello che, anche lui partendo dal nulla, è diventato oggi presidente del Consiglio? «Riconosco che punti di contatto ci sono. Il dinamismo inteso come realismo, da applicare cioè, se necessario, anche trasgredendo le regole, appartiene tanto a Mattei quanto a Berlusconi. La differenza sta nel fatto che il primo iniziò come imprenditore pubblico, il secondo come privato. Una differenza di prospettiva essenziale». E la collaborazione fra imprese e Stato? Anche qui un ritorno di prospettiva politica. «Indubbiamente. Del resto io sono un liberista. Ma sempre nel rispetto delle regole». Il fantasma di Gian Maria Volontè nel Caso Mattei di Francesco Rosi, infine. «Chiedo la clemenza della corte.

Non è possibile fare paragoni: lui era Volontè e io sono solo Ghini. Ma quello di Rosi era un film-inchiesta sulla misteriosa morte di Mattei. Noi raccontiamo una vita intera. Abbiamo, insomma, un altro tipo di responsabilità».

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