Ecco la geopolitica delle lingue In America si studia solo cinese

La geopolitica è una lingua straniera. I banchi di scuola, i professori, i ragazzi, i programmi. Vale di più leggere quello che succede nelle scuole americane che dieci vertici internazionali: dove va il mondo? Perché gli Stati Uniti hanno abbandonato l’idea di avere una strategia sull’Europa e si sono definitivamente concentrati sull’Asia. Cina. Rapporti, alleanze, crisi, polemiche. Il caso Google nasconde interessi più ampi, d’accordo. È un pannello che oscura la storia vera. Però la scuola no. La scuola svela, invece di nascondere. È il futuro portato nel presente: è lo strumento che usi oggi per essere pronto domani. Allora prendi il New York Times e leggi: l’America non insegna più le lingue straniere a scuola, tranne una. Il cinese. I corsi crescono del quattro per cento: gli Stati Uniti hanno bisogno di sapere come capire il nemico del futuro che è già arrivato. Devono leggere, scrivere, comprendere, analizzare. Serve quello, adesso, nient’altro. Alla fine degli anni Novanta e all’inizio dei Duemila fu lo stesso con l’arabo. Serviva comprendere il mondo, le idee, la lingua degli islamici. Oggi non è che il garzone che porta il latte ogni mattina nelle zone residenziali delle cittadine del midwest sappia leggere l’arabo, ma ci sono abbastanza americani che sono capaci di farlo. Nel mondo delle relazioni diplomatiche e commerciali, nel mondo della sicurezza, nel giro dell’intelligence adesso c’è coscienza sufficiente per non sentirsi nudi di fronte a un problema. Il cinese no. Il cinese è la frontiera che non è stata ancora superata. Serve ora. Servirà domani. L’abbiamo visto: ci prepariamo a un duopolio cino-americano, a una nuova guerra fredda più economica che nucleare e però più subdola, complicata, sottile. Perché c’è l’apparenza dell’amicizia che nasconde la realtà della rivalità. Sorrisi e sgambetti, affari e concorrenza.
Bisogna parlare, però. La scuola sta qui: a creare la possibilità per gli americani di trovarsi meno impreparati di fronte a una trattativa con i cinesi. È finita l’era dell’involtino primavera e basta. Oggi negli Stati Uniti ci sono 1600 scuole pubbliche che insegnano a parlare cinese, cioè il 500 per cento di più rispetto a dieci anni fa. Non è folklore, è vita. Business e politica, come sempre. Business e politica che sbattono in faccia all’Europa la sua pochezza: in un anno il 18 per cento delle scuole ha rinunciato ai corsi di francese e l’11 per cento a quelli di tedesco. Resiste lo spagnolo, ovviamente. Resiste perché la percentuale di latinos americani cresce ogni mese. Regge anche l’italiano, spinto da un amore riacceso da qualche film. Il problema è che scompare un continente, comunque. Svanisce nella sua inutilità politico-diplomatica che anche il terremoto di Haiti ha mostrato in tutto il mondo. L’Europa non conta, l’Europa al di là dell’Atlantico non c’è. C’è il resto, quindi la Cina. Cioè l’avversario che l’America si trascinerà per un tempo illimitato e indefinito. Sconosciuto, banalizzato, rinchiuso in qualche stereotipo del passato che non c’entra nulla col paese che oggi ha superato il Giappone in Pil, produttività, produzione industriale.
Pechino è un’altra cosa. Diversa e difficile. Studiarla a scuola è la banalità che può cambiare i rapporti internazionali. Basta questo: nel 2006, il dipartimento di Stato fece un sondaggio sulla conoscenza delle lingue straniere dei suoi dipendenti. Ecco, il 30 per cento dei diplomatici più o meno in carriera conosceva solo l’inglese. Che è come dire che un professore di matematica del liceo sappia fare solo le addizioni. Scoppiò il caos, con Condoleezza Rice costretta a giustificarsi di fronte al comitato per la spesa pubblica del Congresso che criticò senza pietà. «Senza parlare la lingua non è possibile né comprendere né influenzare la politica locale di un paese». Il dramma fu che in Cina la percentuale di chi era perso senza l’interprete saliva al 40 per cento. Così via ai corsi intensivi, via alla gara al finanziamento dello studio delle lingue straniere, via alla creazione di dipartimenti specializzati in lingue orientali nei più prestigiosi atenei d’America. Questo tre anni e mezzo fa. Ora non basta neanche. La sfida Usa-Cina ha accelerato le esigenze e cambiato i programmi. La scuola pubblica serve a creare lo strato base per il dopo. Allora via tutto il resto: a che servono francese e tedesco? A niente. Via quei professori e dentro quelli di cinese.

La fregatura è che per il 90 per cento dei casi sono cinesi. E spesso sono pagati da Pechino, quindi dal nemico. E più aumenteranno i corsi più crescerà la richiesta di insegnanti. È paradossale, ma non c’è alternativa.

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