Quattro visionari a Palermo, ovvero la città che riprende la sua vita e il suo calore, negando il buio e la morte. È facile a Palermo sentire il male e l'ombra, proiettate dalla presenza imprescindibile della mafia, con una installazione come quella che domina il soffitto della sala Kounellis di Palazzo Riso.
Abbiamo già superato la soglia dell'inferno, e non sappiamo come uscirne. Eppure la città vive, e anche tramortita, umiliata e stordita dalle stragi del '92, ha continuato a vivere in una quotidianità confinante con una dimensione visionaria, di fuga dal reale. Lo hanno testimoniato, da allora a oggi, quando escono schierati come i quattro cavalieri vincenti dell'Apocalisse, gli artisti subito individuati e contestualmente emarginati, come «Scuola di Palermo»: Alessandro Bazan, Francesco De Grandi, Andrea Di Marco, Fulvio Di Piazza. Uno di questi combatte dall'aldilà, vivo nelle sue opere: Andrea Di Marco. Ciò che rimase in una dimensione manieristica avulsa dalla vita, tutta dentro l'arte, nella transavanguardia, negli artisti di Palermo si dispiega con una energia e una vitalità incontenibili. Nel cuore di Palermo, a Ballarò, a Brancaccio, alla Kalsa, o la Vucciria, da cui viene il dipinto illustrativo di Guttuso, archetipo del manierismo della transavanguardia, eppure tanto celebrato. Li avvistò, in quella difficile congiuntura storica, Alessandro Riva, mentre rianimava molti artisti virtuosi con la sua Italian Factory e, pattinando su una storia più dura e difficile a Palermo che altrove, ne riconobbe il merito e le peculiarità.
Lo conferma Bazan che non potrebbe immaginarsi milanese, in una trasferta per molti inevitabile: «Quando abbiamo iniziato a dipingere insieme eravamo dei ragazzini. Erano gli anni delle stragi, andarsene era conveniente ma abbandonare il campo è da vigliacchi, quindi siamo rimasti». Proprio così. E sotto gli armadi sospesi e vuoti di Kounellis a Palazzo Riso, le loro opere sono la risposta della Palermo viva e sonora contro la Palermo della morte. Ancora Bazan: «Palermo c'è inevitabilmente, in tutto quello che facciamo, è una città dotata di una grande potenzialità e originalità, e anche in un periodo di forte omologazione come questo riesce a differenziarsi».
Così la loro pittura si distingue. E se quella di Bazan è una fuga, in una città favolosa e avventurosa, quella di Andrea Di Marco è la Palermo dei luoghi abbandonati, delle macerie, delle periferie, dello Zen, dove pure la vita si agita. Vita vera, vita mortale e vita interiore. Fulvio Di Piazza persegue una visione onirica, lussureggiante, in cui si confondono Palermo e Rio de Janeiro, ovvero Palermo e il quartiere Palermo di Buenos Aires. Tutto è altrove, ma il suo altrove è qui. Per Di Piazza, Sergio Troisi ha evocato addirittura il nome di Bosch, ma certamente la sua visione esotica e onirica, la sua fuga nel sogno, non sarebbero state possibili senza l'energia di Palermo, sempre elusa e sempre presente. Francesco De Grandi sceglie un'altra strada, in uno strano equilibrio, con un'ansia classica, una nostalgia della grande pittura, una indifferenza alle avanguardie e al Novecento. Paesaggi notturni, incantati, personaggi emarginati, puttane, mendicanti. De Grandi ci racconta: «Sono interessato alla raccolta, affascinato dalle cose vecchie, dalla muffa, dal macabro e dal grottesco, dalla bellezza non convenzionale; attratto dal decomposto, dal sudore, dal sangue e dagli escrementi: tutte cose che sporcano e ungono. Vago tra i rovi e le piante anarchiche, giardini interstizio, spazi autonomi di bellezza. Tutto ciò che mi ricorda il nostro essere impermanenti, fragili e senza scopo». C'è incanto, stupore, passeggiate nei giardini e nell'orto botanico di Palermo, il centro del mondo: «Palermo inoltre è l'unico posto in cui mi sono sentito profondamente me stesso, qui riesco a dipingere senza sentirmi totalmente solo. È una città dura e difficile, piena di problemi, amministrata malissimo e volontariamente dimenticata. Molto è stato detto e non sono così ingenuo da pensare che sia un paradiso, ma è la mia città, molti di noi non si sono mai mossi, molti vanno e tornano come ho fatto io ad esempio e molti stanno cercando, riuscendoci a volte, di fare qualcosa di straordinario, come fare gli artisti, aprire una galleria, fare cinema, ecc. Ho enorme rispetto per questa gente di Palermo, ed è sempre più forte la consapevolezza che forse la geografia è destino».
Negli stessi anni della rigenerazione dei quattro artisti si era stabilita a Palermo anche Jenny Saville, la pittrice inglese che sentiva la loro stessa urgenza, un'urgenza di vita, e aveva capito che Palermo era lo spazio per la irriducibile tensione dei corpi di donne che si era decisa a rievocare nel loro disagio, nella loro sofferenza. È l'ora di Palermo. Ho provato a vedere dove la tensione dei quattro, più la pittrice inglese, si poteva ritrovare, in Italia, e dove gli artisti potessero tentare, con altri registri, un'analoga esperienza. Ho pensato così a Enrico Robusti, artista di Parma loro coetaneo, del tutto avulso dalla realtà ma animato da un vitalismo sfrenato in contrapposizione a Thanatos, che non è espressa nella sua città ma che è dentro di lui. Un processo diverso, ma con esiti analoghi. Robusti è quindi l'artista ospite, con umore e spirito affine ai quattro di Palermo; due scuole a confronto nel rapporto morte-vita, in dialogo diretto con l'installazione di Kounellis sulle pareti del salone di Palazzo Riso. Quel luogo le aspetta come una voragine che risucchia ogni cosa. E con la singolare coincidenza della staffetta tra Palermo capitale italiana della cultura nel 2018 e Parma nel 2020.
Morte e vita; il tema ha appassionato anche un valoroso artista albanese, Edi Rama, che si è trovato a essere il capo del governo. Mi segue, mi legge, e ha intercettato il progetto palermitano. Mi pare una bella interpretazione: «Arte e vita: Scontro con la morte! Esatto, ma c'è un punto che bisogna chiarire: la vita fa parte della morte, non è un scontro ma un viaggio indolente verso di Lei, mentre l'Arte rende la vita uno scontro perché fa della morte la sua materia per andare oltre! E quelli che vivono senza l'Arte non si scontrano con la morte, ma la rappresentano nel loro essere in viaggio verso di Lei, mentre coloro che, tramite o con l'aiuto dell'Arte, vivono la vita, fanno della morte un compagno nell'incertezza della fine...
Eppure sì: Pasolini sarebbe stato odiato se Zuckerberg fosse stato l'uomo dell'anno quando lui creava Theorema! Un forte abbraccio e, ti prego, non cercare invano di convincere quelli che la Morte la rappresentano in veste di viaggiatori indolenti verso di Lei...».Morte e vita a Palazzo Riso.
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