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Ecco l’alibi del «killer» che il pm ha ignorato

nostro inviato a Reggio Calabria

Prove, non chiacchiere. Se anziché affidarsi alla confessione de relato del pentito Domenico Novella avesse dato retta ai riscontri certi e documentati in atti, la procura di Reggio Calabria avrebbe forse evitato la tirata d’orecchie della Cassazione che il 18 dicembre scorso ha annullato, con rinvio, l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Alessandro e Giuseppe Marcianò, considerati il mandante del delitto Fortugno e l’autista che accompagnò il killer.
Alla base della bocciatura le diverse versioni offerte dai collaboranti, l’assenza di prove convergenti e, tra le righe, l’imbarazzo per la scarsa considerazione data all’alibi (di ferro) del giovane Marcianò.
La storia dell’alibi «scomparso» che rischia di mandare a carte quarantotto l’intera inchiesta prende il la da un’informativa dei carabinieri del 23 ottobre 2005 nella quale vengono riportate le dichiarazioni a caldo dei testimoni oculari del delitto, su tutti Antonio Alvaro, certo di aver visto il sicario «che aveva all’incirca 20 anni», corporatura esile, bassa statura, «scendere da una vecchia auto A112» e non da una Fiat Uno di colore bianco rinvenuta dalla polizia, come sostenuto dal pentito Novella. A detta di un altro supertestimone, Giuseppe Lombardo, il killer «impugnava una pistola con le mani nude», particolare importante visto che nella Uno bianca esaminata dal Ris non sono state trovate impronte né del presunto killer (Salvatore Ritorto) né del presunto autista (Giuseppe Marcianò). Un’altra informativa dei carabinieri, di cinque giorni successiva alla precedente, a proposito dell’auto usata per l’omicidio, taglia corto: «Si ritiene più che probabile di contro che la l’autovettura in questione sia stata abbandonata da ignoti ladri non coinvolti nella vicenda Fortugno» che avrebbero mollato l’utilitaria in mezzo alla strada causa l’imponente spiegamento di forze dell’ordine a seguito dell’agguato.
Partendo dal mistero della macchina si arriva dritti all’alibi di ferro di Giuseppe Marcianò. Da subito il presunto autista del commando fa presente agli inquirenti che lui, all’ora del delitto, era da tutt’altra parte: prima a pranzo al paesino di Mammola (dove si è accertato esser stato sicuramente fino alle ore 16.15) e nel pomeriggio a Cinquefrondi, una quarantina di chilometri da Locri, a far compere nel centro commerciale Pegui insieme alla moglie e ai coniugi Ierinò che confermano senza esitazione la presenza di Giuseppe ben oltre le 17.20, ora dell’uccisione di Fortugno.
I riscontri sono incrociati, convergono alla perfezione, più testimoni demoliscono le parole del pentito. Soprattutto un certo Giovanni Marco Giannilivigni che prima a verbale, e sotto intercettazione con la moglie poi, conferma d’aver incontrato Giuseppe Marcianò nel centro commerciale lontano 50 minuti d’auto da Locri. Al pm Mario Andrigo, Giannilivigni conferma d’aver incontrato Marcianò in un centro commerciale di Cinquefrondi. «Ricordo che il Marcianò mi ha offerto un caffè nel bar centrale interno al centro commerciale - dice - mi sembra di ricordare che io, mia moglie e mio figlio eravamo andati a mangiare al ristorante Baconchi» di Cittanova, poco distante. Senza sapere di essere sotto controllo, Giannilivigni telefona alla moglie per sfogarsi di quattr’ore di interrogatorio e chiedere conferme al suo racconto agli investigatori.
È un formidabile riscontro probatorio poiché sulla presenza di Marcianò junior a 40-50 chilometri dal luogo (e dal momento) del delitto arriva la testimonianza indiretta anche della consorte di Giannilivigni che aggiunge particolari importanti: «Lui c’era, me lo ricordo bene. Sua moglie era in un negozio». Ecco perché, strada facendo, Giuseppe Marcianò è stato ricollocato a forza dagli inquirenti in un ruolo un po’ più defilato: da driver del killer a semplice organizzatore dell’agguato.

In alternativa si sarebbe dovuto sbattere sott’inchiesta il pentito per calunnia falsa testimonianza (e sarebbe stata la prima volta in Italia).

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