nostro inviato a Livorno
Naturalmente ci sono anche Antagonisti e Rifondazione. Fuori, a urlare slogan. Però è il loro giorno fortunato: gli uomini della Folgore hanno l'ordine tassativo di non rispondere alle provocazioni. No, stavolta nessuno deve rovinare il senso alto e lieve di questo ritrovo. Allo stadio dell'Ardenza, dove solitamente gli Antagonisti vanno in delirio per un'ideale superiore chiamato Lucarelli, si radunano soldati e famiglie di un'Italia molto strana. È quella gente particolare, fuori tendenza e fuori registro, che ancora crede in cose così, come Stato, dovere, libertà, sacrificio. Ma non per modo di dire: ci crede fino a perderci la vita. I soldati saltando per aria negli assalti dei kamikaze, le famiglie piangendo a casa chi non torna più.
È la festa annuale dei parà, ma questa volta aleggiano atmosfere e significati molto particolari. Certo, c'è il cambio del comandante, dal generale Castellano al generale D'Apuzzo, e c'è il ricordo di El Alamein, dove 3.500 parà italiani affrontarono 50mila avversari, senza sapere di combattere dalla parte sbagliata - come rimproverano i contestatori là fuori -, ma unicamente obbedendo agli ordini e al servizio del proprio Paese, come fecero anche in seguito i 304 sopravvissuti unendosi alle forze di Liberazione.
Questa la cornice ufficiale e solenne, alla presenza di Schifani. Eppure, tutti lo sanno e tutti lo avvertono, il cuore vero della giornata è un altro: il saluto ai ragazzi appena tornati dall'Afghanistan. Soprattutto, a quelli che non sono tornati. La Folgore ne piange sette. Un maxischermo ne rimanda tra gli applausi i nomi, a perenne memoria: Di Lisio, Fortunato, Valente, Pistonani, Mureddu, Ricchiuto, Randino, Ponziano.
L'Italia strana, l'Italia che ci crede, si ritrova senza piangersi addosso. Più del lutto, si respira l'orgoglio. Mi rendo conto come questo termine ormai presenti mille lati oscuri. Per noi, per tanti di noi, è l'orgoglio prêt-à-porter che riscopriamo ciclicamente nelle faccende più fatue, siano i rigori di una finale, sia una regata di Luna Rossa. Poi c'è lo stupido orgoglio con cui travestiamo di volta in volta la nostra cocciutaggine, la nostra permalosità, la nostra vanità.
Così, quando poi dobbiamo usare il termine con piena proprietà di linguaggio, quasi ne proviamo diffidenza. A forza di immiserirlo, l'orgoglio è diventato vagamente impronunciabile. Non qui, però. Nello stadio di Livorno, l'orgoglio torna ad assumere tutta la sua originaria e intangibile dignità: l'orgoglio dell'appartenenza ad un Paese, ad una squadra, ad una famiglia. L'orgoglio di essere dalla parte giusta, di fare la cosa giusta, di sognare un domani giusto.
C'è tutto questo nell'urlo corale dei soldati, ogni volta che salutano o ricordano qualcuno. C'è nell'inno di Mameli che l'intero stadio canta sulle note della banda, senza balbettare quel testo abbastanza stravagante che da un secolo e mezzo vuole stringerci a coorte. Ma l'orgoglio muto e supremo è esposto soprattutto sui volti di tante vedove e di tanti orfani seduti in tribuna. Dice la signora Maddalena, che nel '94 ha perso il figlio Gianluca durante una manovra in Spagna, e che da quindici anni continua a salire da Sora per respirare lo stesso calore, come se niente fosse mai successo: «Non ho mai maledetto un solo giorno la Folgore, per avermi portato via il mio ragazzo. Anzi, da allora la Folgore si è stretta attorno a noi e al nostro dolore. Non ci sentiamo soli, facciamo sempre parte della famiglia. Diverso lo Stato: quello potrebbe fare molto di più, ma dopo le esequie solitamente sparisce...».
Riconosciamolo onestamente: fino a trent'anni fa, noi che abbiamo svolto - malvolentieri - un servizio di leva più o meno grottesco, abbiamo considerato questo reparto livornese come un covo di esaltati guerrafondai. Loro, per la verità, non facevano molto per spazzare via le dicerie. In un certo senso, giocavano alla guerra. Ma adesso che di guerre ne hanno fatte tante e vere, cominciando nell'82 in Libano, fino all'altro giorno a Kabul, tutto è diverso. In questo stadio sfilano professionisti della pace, come loro stessi hanno imparato a considerarsi. Non c'è più niente di fanatico e di delirante, nessuna concessione alla mitologia dei superuomini: c'è molta consapevolezza, molta serietà, molta compostezza. Davanti al pubblico dell'Ardenza, sfilano padri di famiglia addestratissimi, questo sì, ma non per giocare alla guerra: per servire un'idea. Quale sia questa idea è difficile precisare: sommariamente, si può rappresentare come la bizzarra idea d'essere Italia.
In tribuna, la moglie del capitano Fortunato, uno dei caduti di Kabul, si tiene per mano il piccolo Martin, orfano di papà a sette anni. Nemmeno due mesi sono passati, ma sono venuti perché qui è come stare a casa. Con la delicatezza di una donna piegata, ma fiera, guarda i colleghi di suo marito e fatica a trattenere le lacrime: «Non ci sono parole. È ancora troppo presto. Forse, col tempo, riuscirò a tirare fuori tutto. Adesso no, adesso c'è solo la consolazione di questo grande affetto attorno a noi».
L'Italia strana della Folgore, che spesso fatichiamo a capire, con i suoi valori irrinunciabili e le sue certezze incrollabili, con la sua fede artigliata in vocaboli altrove vilipesi, come patria, stato, popolo, democrazia, questa Italia poco wow e niente lustrini, poco vip e niente clamori, si raccoglie e si riconosce nella sua bandiera e nei suoi caduti. Per noi, Italia delle chiacchiere e dei talk-show, Italia cinica e scettica del bipolarismo - questo sì - bellico, è faticoso comprendere il senso di tanta devozione. Sembra quasi una liturgia oscura. Ma mentre dal cielo planano i campioni del volo, mentre la parata sfila religiosamente in scia al tricolore, è normale porsi le domande più scontate. Pensa ad esempio se tutti avessimo il loro senso civico.
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