Milano Allora qualche volta succede, mica è solo una favola. Prendete per esempio Amy MacDonald: è una ragazzina di ventun anni, parla uno strettissimo scozzese di Glasgow ed è bella di quella bellezza che non si mangia tutto il resto. In Gran Bretagna e nel resto dEuropa, lei che è amante di un folk pop non proprio commerciale, ha venduto più di due milioni di copie del suo cd This is the life ma in Italia per tre mesi ha combinato niente o quasi. Tanto per dire, a dicembre ha cantato allAlcatraz di Milano come supporter di Cesare Cremonini, ma tutto è finito lì e la classifica non se ne è neppure accorta. Poi boom, allimprovviso. In pochi giorni ha fatto un salto che nemmeno Sara Simeoni ai bei tempi: 76 posti. Era allottantaseiesimo, adesso è al decimo. E il singolo This is the life è uno dei più trasmessi da radio e tv e vedrete che diventerà un piccolo tormentone. Perché? Perché è brava. «La mia musica piace perché la gente ci si riconosce» spiega lei, sempre in quello scozzese che ci vuole il traduttore. In ogni caso, sè fatta da sola: ha studiato, ha composto canzoni, ha fatto la sua gavetta finché, applauso dopo applauso, ha pubblicato un disco ed eccola qua: lei è la faccia pura del nuovo pop.
Amy MacDonald, perché in Italia ci ha impiegato così tanto a farsi conoscere?
«Forse perché le cose belle e genuine ci mettono sempre più tempo a farsi spazio».
Intende dire che invece le cose brutte vincono facile?
«Per carità, non lho detto io. Di sicuro danno meno protezione a chi le fa. Mi spiego: avete visto come si è ridotta Britney Spears? Questi sono i risultati di una fama rapida, troppo rapida. E poi in Italia avete già un sacco di artisti talentuosi».
Ad esempio?
«Cesare Cremonini. Ha un bel repertorio. E si costruisce passo dopo passo».
Anche lei ha fatto tutto per benino: la composizione dei brani, le serate nei piccoli club, il disco.
«Per me la musica è come se fosse la mia placenta. Io vivo nella musica, dalla musica prendo tutte le energie per sopravvivere, vivere e divertirmi. E non me ne frega nulla di tanti dettagli che invece fanno imbestialire i miei colleghi». Ad esempio?
«La posizione in scaletta durante i concerti. A me non interessa se sono lattrazione principale oppure soltanto il supporter. Se alla gente piacciono le tue canzoni, ti ascolterà a qualsiasi ora e in qualsiasi posto».
E vabbé, dice così perché è agli esordi. Poi con la fama aumentano anche le aspettative.
«Non ho mai voluto essere famosa. Il successo è solo un caso. Perciò, se uno proprio lo cerca, deve saper aspettare. Ad esempio, anche in Spagna il mio disco ha impiegato un po ad esplodere».
Forse tutto dipende anche dalle sue canzoni, che sono pensierose, incalzanti, talvolta malinconiche.
«Non riesco a dare definizioni alla mia musica. Non sono un prodotto di MySpace né del marketing. Il disco che mi ha cambiato la vita è stato The man who dei Travis. E adesso ascolto anche molto Kings of Leon, Springsteen, persino i Beach Boys».
Però nel cd ha dedicato «Poison prince» (Principe del veleno, ndr) a Pete Doherty.
«Non so quanti concerti dei suoi Babyshambles io abbia visto in vita mia. Lui non è stato demolito dal rocknroll ma è arrivato a scrivere canzoni quandera già molto dipendente dalle droghe. In questo senso, è un caso abbastanza raro, non è paragonabile a nessuno».
Invece tutti hanno la mania dei paragoni. Lei ad esempio è stata paragonata ad Amy Winehouse.
«È bravissima ma io non sono lei».
A Sandy Denny dei Fairport Convention.
«Magari. Ma questo gioco non mi piace. Io sono io. Anzi, io sono le mie canzoni».
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