da Milano
Daccordo, rieccola: è di nuovo il momento di Mariah Carey. Il suo nuovo cd E = mc², uscito martedì scorso, ha venduto 154mila copie in un solo giorno negli Stati Uniti, facendo immaginare che domani entrerà direttamente al numero uno della classifica americana (è già al nono in Italia). Per capirci, lultimo cd che è arrivato al primo posto della hit parade di Billboard (Spirit di Leona Lewis) ha totalizzato poco più di duecentomila copie in una settimana. E quello immediatamente prima, Troubadour di George Straits, in sette giorni ha venduto tanto quanto Mariah in uno solo. Roba da sparire al confronto. Perciò stavolta la Carey farà il record: gli analisti pensano che gli americani compreranno duecentomila copie in più rispetto a quanto fecero per The emancipation of Mimi, il cd uscito nel 2005 per oltre quattrocentomila copie nella prima settimana. Per di più, il nuovo singolo Touch my body non solo è andato al numero uno ma ha anche battuto (o almeno eguagliato, secondo alcuni) il record di Elvis Presley: 18 singoli consecutivi al primo posto in classifica. Più che una popstar, questa newyorchese che ha appena compiuto 38 anni (e ispirato cantanti come Christina Aguilera) è una macchina da Guinness dei primati, dove peraltro è già iscritta come «la cantante che riesce a toccare la nota più alta». Insomma, contabilità a parte, Mariah Carey è una delle pochissime artiste che ha conservato anche negli anni Duemila i lussi dei Novanta, quando i dischi si vendevano a milionate, con adeguati e comprensibili ritorni finanziari. Tanto successo e tante critiche. Ed è facile dire che la sua è musica patinata, vuota, frutto soltanto di strategie commerciali.
Facile ma riduttivo. Mariah Carey piace a una quantità di pubblico tale che non ammette repliche: piace a chi cerca nella musica la melodia facile, la produzione scintillante, la «sognabilità», che è la capacità di una canzone di immedesimarsi nei gusti e i sentimenti della percentuale più alta possibile di pubblico e alla fine chissenefrega se non ci sono picchi intellettuali o slanci idealistici.
Mariah Carey è pop.
E perciò i milioni di fans le perdonano anche quegli atteggiamenti da diva (una volta ha ricevuto il Giornale a Copenhagen sdraiata su di un triclinio come Paolina Bonaparte) che altrimenti sarebbero già stati banditi a suon di fischi. Oddio, laltro giorno a Los Angeles qualche centinaio di ragazzi lha mandata a quel paese dopo averla inutilmente aspettata per due ore. Avrebbe dovuto firmare autografi allUniversal City Walk ma dopo pochi minuti ha detto di essere «stanca» e se ne è andata «a casa» tra gli insulti. Ma alla prossima volta ci sarà di nuovo la coda ad attenderla perché è così che capita alle dive: sanno far dimenticare i brutti ricordi.
Daltronde a lei viene bene. Tanto per dire, con questi due album Mariah Carey è riuscita a cancellare la fase negativa che dal 2001 al 2004 laveva trasportata dalla categoria «Cenerentola pop» a bella statuina dimenticata. Adesso è come se niente fosse: e il merito non è solo dei centosessanta milioni di dischi venduti in carriera o della commestibile e spesso indigeribile zuccherosità delle sue canzoni. Mariah Carey è ciò che un pubblico enorme, specialmente americano ma non solo, legittimamente chiede alla musica: doti vocali e disimpegno. E così, in questo ruolo di reginetta del pop da fiction, ormai può permettersi quasi tutto, persino di intitolare il suo cd con la formula della relatività e poi dire: «Chi? Einstein? Ma se ho anche sbagliato lesame di matematica... In realtà le lettere di questa equazione si riferiscono alle iniziali del mio disco precedente. Le ho elevate al quadrato perché questa volta sono più libera di quanto sia mai stata».
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