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Ecco perché in Afghanistan stiamo vincendo la guerra

PAKISTAN I talebani sono costretti a colpire i civili perché stanno perdendo il sostegno della popolazione

HeratSulla carta militare appesa alla parete del Regional Command West (Comando della regione occidentale) a Herat, Bala Morghab è un puntino tra le montagne, a ridosso del Turkmenistan. So, perché ci sono stato, che in realtà oltre la corona di monti si apre la vallata bellissima, fertile e strategica, del Morghab. Quanti dei 170 chilometri di strada che la separano da Herat sono fuori controllo? Lo chiedo ad Alessandro Veltri, il generale-intellettuale della Brigata Sassari. Ha il comando sui cinquemila uomini della coalizione internazionale in un questo quadrante. Occhialini tondi e l’aria mite di un professore, mi risponde che da mettere in sicurezza rimangono soltanto gli ultimi 40 chilometri, quelli incuneati tra gole ripide e strapiombi da paura. Sembra poca cosa. E invece è tantissimo, un risultato importante.
Perché, nonostante la fine del 2009 e un inizio anno insanguinati visti da casa nostra ci diano l'idea del caos e di un Paese ormai perduto, in Afghanistan stiamo vincendo. O loro stanno perdendo. Anche se ovviamente l'esito finale è ancora lontano e non scontato.
Il «noi» è riferito ai 42 Paesi, tra cui l’Italia, che partecipano con grandi sacrifici - 502 i morti quest’anno, il prezzo più alto dal 2001 - alla missione Isaf che ha come primo scopo quello di dare sicurezza a uomini, donne, bambini (tanti) martoriati da più di 30 anni di guerra. «Loro» è quella galassia in cui le motivazioni politiche e religiose sono soltanto una minima parte. Questa galassia composta da talebani, gli studenti coranici, trafficanti e briganti ha fatto del terrore ormai più che un mezzo un fine. Utilizzare ogni terra di nessuno come base per fare i propri affari è la strategia. Ma in Afghanistan stanno perdendo la partita.
Il massacro di sette agenti della Cia nella base avanzata di Khost, al confine Sud-orientale afghano, compiuto da un terrorista infiltrato, dimostra come agli «insorgenti» non sia rimasto altro dopo aver perso ogni possibilità negli scontri in campo aperto.
Nei giorni scorsi, la strage terrificante in Pakistan, nel villaggio di Shan Hasan Khan, al confine con l’Afghanistan e il Waziristan, roccaforte dei talebani, realizzata con un Suv pieno di esplosivo lanciato contro il palazzetto dello sport dov’era in corso una partita di pallavolo - circa 100 morti, molti giovanissimi - e decisa per punire gli abitanti che si erano armati per tenere lontani gli estremisti islamici, dimostra che in molte zone hanno perso o stanno perdendo il sostegno della popolazione.
Questo avviene anche in Afghanistan. In particolare nella regione occidentale di Herat dove il comando della missione è in mano agli italiani. E ha a che fare anche con gli scontri che hanno impegnato per tre giorni i nostri soldati insieme con le forze Isaf e dell’esercito afghano a Bala Morghab, nel Nord della regione. Un esempio eloquente. La base avanzata, un vero e proprio fortino nella valle che prende il nome dal fiume, una delle zone calde, è stata realizzata nel 2007 dagli italiani. Un primo presidio del territorio per avvertire i vari clan che la pacchia era finita, che non dettavano più legge.
C’è voluto tempo. Tra maggio e giugno 2009 i parà della Folgore hanno affrontato scontri violentissimi: agguati, sparatorie ingaggiate dai cosiddetti insorgenti, sulla base è stato lanciato di tutto, razzi compresi. I nostri hanno risposto colpo su colpo. A luglio è stata raggiunta una tregua ufficiosa, per consentire le operazioni di voto. La Brigata Sassari, che da ottobre ha dato il cambio alla Folgore, ha un atteggiamento più soft ma ha potuto consolidare i risultati.
Poco prima di Natale la shura, l’assemblea dei capi villaggio, ha chiesto agli italiani di estendere la loro presenza nell’area con altri due avamposti, oltre al ricco programma di opere civili per la ricostruzione. Perché è quello che vuole la popolazione.
Il giorno di Natale è stata avviata l’operazione congiunta (italiani, forze Isaf, esercito afghano). E si è scatenata la reazione dei capi clan e capi bastone che non vogliono intralci ai loro traffici. Qualcosa, tutto sommato, non molto diverso di quanto - nelle dovute proporzioni - accadeva e potrebbe ancora accadere in alcune zone della Campania, della Calabria, della Sicilia o della Sardegna.
L’esito finale è tutto da vedere e i risultati in Afghanistan sono sempre relativi. Ma soltanto un eccesso di catastrofismo-masochismo può non farceli scorgere. E negarli sarebbe negare l’impegno di migliaia di uomini e di donne, grazie al quale stiamo vincendo.
Sono rientrato dall’Afghanistan il 29 dicembre. Un giorno prima del rapimento di un giornalista e di un operatore francesi. Due giorni prima della morte di Michelle Lang, la giornalista canadese del Calgary Herald uccisa con quattro soldati connazionali quando il blindato su cui viaggiavano è saltato su una mina nei pressi di Kandahar. Il ricordo in particolare va a questa giovane collega, 34 anni.
Tutte le volte che sali su un mezzo militare e lasci la base, non puoi non pensare che ogni secondo potrebbe essere l’ultimo. Ti chiedi naturalmente: chi me lo fa fare? Per alcune ore, per pochi giorni condividi tutto questo con i soldati che lo vivono 24 ore su 24. È una prima riposta. È una storia da raccontare. Poi quando vedi gli occhi dei bambini afghani, e i sorrisi, non te lo chiedi neanche più.
pierangelo.

maurizio@alice.it

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